Le urla e i lamenti bucavano le pareti, i lividi – da cinghiate – lo schermo delle tv attraverso le foto mandate in onda in prima serata da Chi l’ha visto?. E ancora bruciature da sigaretta e il nastro da pacchi usato per stringere braccia e gambe. Nero su bianco le tracce dei maltrattamenti nel centro Aias di Decimomannu si possono cercare sui documenti in un arco di almeno 15 anni. Precisamente negli esposti presentati, invano, da Maurizio Onnis, fratello di Gianfranco, morto in ospedale, ricoverato all’ultimo momento senza dir nulla ai familiari. Gli insulti, le botte, le umiliazioni non sono (solo) recenti: ma hanno una storia lunga, configurano una sorta di metodo di lavoro, sistematico e ripetitivo.
Oltre alle immagini del 2014 (video) che hanno portato all’inchiesta, il caso del centro Aias si allarga quindi nel tempo, a ritroso, e nelle responsabilità. Da ricercare non solo nella mano che schiaffeggia, nel calcio dato a chi è caduto per terra, nella dirigente che decide di usare un solo bagno per tutti con la doccia collettiva da aspettare nudi. Ma più in là, ancora negli uffici pubblici, nelle figure di garanzia, come quella dell’assessore di Samassi citato da Onnis, diventato tutore. In mezzo ci sono le famiglie e l’eterna minaccia: “Te lo mando a casa”.
Ma chi entrava in quel luogo, noto anche per gli sponsor politici, difficilmente ne usciva. Ogni paziente era una fonte di guadagno: una pensione di invalidità da tenere stretta. Il resto un feroce gioco di ruolo: vittime e carnefici. L’umanità da lasciare fuori prima di indossare la divisa: “Se mio marito sapesse…”, dice un’intercettata. L’umanità che scompare nei profili Facebook di chi ancora oggi rivendica stipendi arretrati e ancora parla senza pudore di “servizi essenziali dati ai meno fortunati”.
Monia Melis