L’inferno delle donne nell’inferno carcerario: le più esposte al suicidio. Buoncammino, un caso nazionale

Nel carcere di Buoncammino va avanti lo sciopero della fame. Dal 25 maggio i detenuti rifiutano i pasti per “fare sapere a tutto i mondo esterno”, hanno scritto, dell’esistenza di una “”tortura istituzionale” chiamata carcere. In questo inferno ce n’è un altro, più piccolo ma per certi aspetti più atroce. E’ la condizione delle donne detenute. Nel 90 per cento dei casi madri di una o più figli  (che possono tenere con loro in cella fino al compimento dei tre anni). In tutti i casi, per il solo fatto di essere donne,  vivono disagi ulteriori.

Nell’estate del 2012, su 24 donne ristrette a Buoncammino, 12 soffrivano di patologie psichiatriche accertate e non vi era nemmeno uno psicologo. A parte il numero delle recluse, la situazione non è mutata da un anno fa quando Cristina Scanu, 33 anni, ricercatrice milanese di origine sarda, si occupò del carcere cagliaritano in una tappa della sua ricerca sulle donne nelle carceri italiane dalla quale ha ricavato un libro – “Mamma è in prigione” – appena pubblicato da Jaca Book.

Nel saggio si parla spesso di Buoncammino. con una notizia sinistra: le donne che vi sono recluse sono tra le più esposte al suicidio, cioè alla “epidemia” che da sempre falcidia la popolazione carceraria: delle 1700 persone che sono morte all’interno delle nostre prigioni tra il 1990 e il 2012, un terzo si è tolto la vita. Le donne sono state 48: in proporzione più dei maschi. “Le detenute – scrive Cristina Scanu – si uccidono e tentano di farlo più degli uomini”.

Non ci sono alternative, se non quella di vivere condizioni a volte solo un po’ meno drammatiche in altre carceri analoghe. In Sardegna, infatti, non ci sono istituti di pena femminili, ma solo sezioni femminili all’interno di carceri maschili: “Le detenute sarde  sono poche, anziane e spesso malate, così come poche sono le definitive condannate a pene lunghe. La maggior parte di queste donne è straniera (rom e nigeriane) e in attesa di giudizio. Molte di loro, madri di uno o più figli, potrebbero uscire dal carcere se ci fossero strutture alternative in cui scontare la pena; altre, in condizioni di salute incompatibili con la detenzione, dovrebbero essere trasferite in residenze sanitarie assistite. Nella maggior parte dei casi, sono gli istituti di religiose ad accoglierle”.

Nel libro si cita la vicenda di Stefania Malu, la settantanove che, dopo due anni di arresti domiciliari, tornò a Buoncammino perché le sue condizioni di salute, secondo il perito del tribunale, lo consentivano. Nonostante l’età, una cardiopatia intensiva, un aneurisma dell’aorta e un principio di demenza senile. 

Ma la fine della detenzione non sempre conclude la sofferenza. Lo racconta Sonia, detenuta per sette anni a Buoncammino. Cristina Scanu ne ha raccolto la testimonianza: il dramma di una donna che trova tutto il suo mondo cambiato, a partire dalle minuzie della quotidianità domestica.

All’epoca della ricerca erano pochissime in Sardegna le donne recluse assieme ai figli.   Bambini costretti a vivere in celle umide e buie, a essere svegliati dal rumore delle chiavi che aprono i cancelli dei blindati, a giocare in un cortile di cemento, con accanto madri depresse e avvilite” . Le storie di Gabriella, detenuta nel carcere milanese di San Vittore, e di Dana, reclusa alla Giudecca di Venezia, aiutano a capire quant’è drammatico il problema. Val la pena di leggerle.

Nicolò Businco

LEGGI, TRATTE DAL SAGGIO DI CRISTINA SCANU “MAMMA E’ IN PRIGIONE” (JACA BOOK) LE STORIE DI SONIA, DETENUTA PER SETTE ANNI NEL CARCERE DI BUONCAMMINO, E DI GABRIELLA E DANA, MADRI CON I FIGLI IN CELLA ASSIEME A LORO.

 

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