“Quando entri in carcere perquisiscono anche il bambino”

Pubblichiamo un passo tratto dal libro-inchiesta “Mamme in prigione” di Cristina Scanu (Jacabook, 2013). Il passo è tratto dal capitolo che racconta le vicende di Gabriella, detenuta nel carcere milanese di San Vittore, e di e Dana, reclusa alla Giudecca di Venezia.

Gabriella è entrata a San Vittore nel 1997 con suo figlio di quindici mesi, ma il più grande, che aveva già compiuto tre anni, è rimasto fuori. «Quando entri», mi confida nei pochi minuti che abbiamo a disposizione per la nostra chiacchierata, «ti prendono il bambino, ti perquisiscono e fanno lo stesso con lui. Solo chi lo ha vissuto può capire cosa prova una madre mentre vede degli sconosciuti in divisa mettere le mani addosso al suo bambino per vedere se è ‘pulito’. Se per caso gli hai nascosto addosso qualcosa. È una sensazione che non si può descrivere. Da quel momento tuo figlio diventa un detenuto senza colpa: stessi orari tuoi, stesse condizioni, stesso cibo».

Non è facile vivere in carcere con un figlio. Spiegargli chi sono quelle donne in divisa, perché a un tratto le porte si chiudono, perché quando fuori c’è il sole lui non può uscire in giardino a giocare. «Sei tu che devi raccontargli la favoletta che sei dentro al castello magico, che non puoi uscire perché fuori c’è la strega. E che non puoi piangere,altrimenti i cattivi ti sentono e vengono a prenderti. La sera, quando chiudono le celle, ho visto bambini con le lacrime agli occhi bussare al blindato per farsi aprire».

Sono bambini che imparano presto ad essere detenuti, a parlare col linguaggio del carcere. Bambini di due anni che rispondono al telefono dicendo: «Pronto, primo piano».

«Quando sei madre sei madre e basta, anche se sei delinquente»,dice Gabriella tra le lacrime. Una frase che racchiude in sé tutta la sofferenza che ogni madre detenuta porta dentro. Non è facile conciliare il ruolo di mamma con quello di carcerata, vedere un figlio muovere i primi passi e pronunciare le prime parole dentro una cella di due metri per tre. Ma per molte è l’unica strada percorribile, se non hanno nessuno su cui contare.

Una scelta obbligata, come quella di Dana, croata di venticinque anni, che da quando era minorenne è entrata e uscita dal carcere e che ora, condannata in via definitiva, deve scontare una pena di otto anni e dieci mesi nel penitenziario della Giudecca, a Venezia. La incontro in un piovoso pomeriggio di ottobre, nella sezione nido di questo antico convento del Trecento, convertito in carcere femminile. Tiene per mano una bimba, Sabrina, la sua ultima figlia. Capelli mossi adagiati sulle spalle, sguardo vispo. Mentre parlo con la sua mamma, mi saltella intorno, vuol farmi vedere le scarpe da ginnastica rosa e bianche e la gonnellina di jeans che indossa. Poi mi prende la mano e mi dice: andiamo?

«Vuole che la porti fuori», mi spiega Dana. «Quando sa che qualcuno può farla uscire, impazzisce. Non ne può più di stare qui senza i suoi fratellini». Sabrina è l’ultima di quattro figli: ha due sorelline di sei e cinque anni e un fratellino, Diego, di quattro. Mentre lei è in carcere con la mamma, loro vivono coi nonni paterni perché il papà è stato condannato per furto a tre anni di reclusione. Quando lo hanno arrestato, Dana era incinta di pochi mesi e ha dovuto crescere da sola quattro figli.

«Gli altri vanno alla scuola materna?», le chiedo. «Purtroppo no»,risponde imbarazzata, «perché mio suocero non può accompagnarlila mattina né può pagare la scuola per tutti. E io non posso mandargli soldi perché qui non lavoro». Poi Dana mi racconta la sua storia, le difficoltà che ha incontrato nel nostro Paese, il giorno dell’arresto.Quando la polizia è andata a prenderla, i suoi figli sono rimasti a casacon la vicina.

Mentre parliamo, la piccola Sabrina ci offre un caffè immaginario nelle tazzine di plastica colorata che trova dentro una cesta di giochi.A novembre compirà tre anni e, come prevede la legge, dovrà tornare a casa. Un nuovo trauma dopo quello dell’ingresso in carcere: «Quandoè arrivata», racconta Dana, «per settimane non ha toccato cibo, si attaccava alle sbarre e piangeva perché voleva uscire. E ora che inizia a stare meglio, dovrà adattarsi a una nuova situazione».

La sua mamma cerca di prepararla al distacco, spiegandole che per un po’ dovrà stare con Maria, la vicina di casa che abita accanto ai nonni, così da poter passare del tempo coi suoi fratellini finché mamma non uscirà da qui.

Stamattina Dana ha iniziato a lavorare come scopina, a pulire i corridoi della sezione: quindici giorni di incarico, poi passerà al giardinaggio, per guadagnare qualcosa da mandare a casa. «Ho fatto errori che non farò più», conclude. «Ho capito che, per i miei sbagli, quelli che pagano di più sono i miei figli, costretti a crescere senza la mamma. Come posso sentirmi sapendo che li ho abbandonati?»

Cristina Scanu, giornalista e scrittrice
Cristina Scanu, giornalista e scrittrice

Cristina Scanu

Nata a Milano nel 1979 – dove ha studiato fino alla laurea in sociologia, indirizzo comunicazione e mass media –  da genitori sardi (padre di Calangianus e madre di Laerru) Cristina Scanu ha iniziato a lavorare in una tv locale lombarda (Telenova), per poi passare a Mediaset e infine alla Rai. Ha collaborato con periodici e quotidiani e oggi fa l’inviata per il programma d Rai2 “L”Ultima Parola”.

 

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