Il trauma della liberazione: “Tutto il mio mondo era cambiato”

Pubblichiamo un passo tratto dal libro-inchiesta “Mamme in prigione” di Cristina Scanu (Jacabook, 2013). Il passo è tratto dal capitolo che racconta la vicenda di Sonia, uscita dal carcere di Buoncammino dopo sette anni di reclusione.

«Non credevo che tornare a casa sarebbe stato così difficile. Non solo perché il carcere ti cambia, ma anche perché quello che lasci fuori non è più come te lo ricordi. Vivi per mesi o per anni con persone estranee. Parli dei tuoi problemi con agenti, educatori, preti. Poi una mattina vengono a chiamarti e ti dicono: ‘sei liberante’. E tu non sai se è più forte la gioia di uscire, di riabbracciare i tuoi cari, o la paura di quello  che troverai. Mi vorranno bene come un tempo? Serberanno rancore perché li ho abbandonati? Mio marito ha dovuto crescere da solo due figli, in un’età delicata per loro. Come posso tornare all’improvviso nelle loro vite, rompendo ciò che con tanta fatica hanno costruito?».

Sonia, ex detenuta del carcere Buoncammino di Cagliari, è tornata in libertà dieci mesi fa, dopo sette anni passati dietro le sbarre. Me la presenta Massimo, un amico comune, che le è stato accanto per tutti gli anni della detenzione.Quando si è aperto l’enorme cancello di ferro che le ha ridato la libertà, Sonia si è trovata di fronte una realtà molto diversa da quellache aveva lasciato. Senza di lei la sua famiglia ha trovato un nuovo equilibrio,il marito ha badato ai figli e al ménage familiare e il suo ritorno è stato un nuovo trauma. «Quando sono tornata a casa», racconta mentre accende il fornello per fare il caffè, «era tutto cambiato. Qui in cucina, sotto al lavello, c’era una lavastoviglie. Le pareti dell’ingresso erano colorate, i quadri diversi, l’attaccapanni spostato. In quello che una voltaera il mio armadio, c’erano i vestiti di mia figlia, che per sette anni
ha dormito nel lettone col papà. Mi sentivo a disagio, ospite in casa mia. Dicevo a me stessa che forse quella sensazione sarebbe svanita, invece non è stato così».

Il suo primo istinto è stato di rimettere tutto com’era,di riprendersi quello che un tempo era il suo spazio. «Ma che diritto avevo di farlo, dopo essere sparita per sette anni?». Anche il riavvicinamento al marito non è stato facile. Per fare l’amore hanno aspettato mesi. Come se tra loro si fosse rotto qualcosa. Niente era più come prima. Sonia ha aspettato con ansia il momento di tornare a casa, ma quando finalmente è arrivato ha sentito che niente della sua vita precedente le apparteneva ancora. La sua relazione col marito è finita proprio nel momento in cui sarebbe potuta ricominciare. Perché la ferita aperta da un’assenza così prolungata non si è mai rimarginata.

Oggi a Sonia resta solo l’affetto della figlia, che vive ancora con il papà, e quello dei suoi genitori, che le sono sempre rimasti accanto andandola a trovare ogni settimana e portandole soldi e biancheria pulita. «Loro hanno vissuto la mia vicenda in silenzio», mi dice con le lacrime agli occhi mentre tiene in mano un album di foto. «Hanno chiesto aiuto, ma non lo hanno trovato. Dopo gli anni della mia tossicodipendenza, hanno affrontato il carcere. Non avrebbero mai immaginato di vedermi dentro una cella, di potermi incontrare solo un’ora la settimana per portarmi soldi, biscotti, sigarette. Non potrò mai risarcirli per tutto il male che gli ho fatto». E scoppia in un pianto disperato.

Per non lasciarsi andare durante la carcerazione è importante che ogni donna senta di non avere perso tutto. Di poter ritrovare in famiglia il posto che ha lasciato. E il rapporto con la famiglia di origine è quello che resiste meglio all’esperienza del carcere. È come se i genitori di Sonia si sentissero in qualche modo corresponsabili per non aver capito cosa stava succedendo alla loro figlia o per non essere intervenuti in tempo. Per chi sconta una pena la vergogna più grande è legata al pensiero di aver deluso i propri familiari e di averli costretti a subire le conseguenze dei propri errori. «Più si avvicinava il giorno della mia liberazione », ricorda Sonia, «più vivevo con angoscia il pensiero di rientrare nel paesino dove vivevo, temendo gli sguardi e le chiacchiere della gente. Lo temevo per me, ma anche per la mia famiglia, immaginando di aver rovinato la reputazione dei miei genitori, di mio marito, e di avere come unica scelta quella di costringere tutti a trasferirsi in un’altra località dove ripartire da zero». Per Sonia la paura del «fuori» era più forte della gioia di tornare libera.

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