Il caso del pecorino ‘sardo’ in Romania: tra internazionalizzazione e l’ossessione del mono-prodotto

Quel che è avvenuto in Sardegna nelle scorse settimane, riguardante il “fermo” di un tir carico di formaggi pecorini romeni diretti a Thiesi, di cui tutti i media locali ne hanno lungamente parlato e scritto, merita certamente che si apra un’approfondita riflessione. Perché l’argomento, al di là del fatto contingente e puramente episodico, ritenuto da alcuni una sorta di “sardinian sounding” (la contraffazione fraudolenta del made in Sardinia) possa essere liberato da ogni speculazione ideologica e da un preoccupante spirito anti-industrialista. Il tema, per chi non lo avesse compreso, andrebbe invece focalizzato all’interno del momento attraversato dal comparto lattiero-caseario dell’isola, soprattutto per l’aspro contrasto esistente sul prezzo attribuito al latte, determinato dalla tendenza ribassista in atto sul principale prodotto caseario del catalogo regionale (meno 25 per cento sul 2015).

Non vi dovrebbe però essere dubbio alcuno sul fatto che questi problemi rivestano una grande importanza per l’economia delle nostre comunità rurali. Infatti, oltre il 50 per cento del prodotto interno lordo dell’agricoltura isolana proviene dagli allevamenti, lasciando alle coltivazioni un peso assai inferiore (più o meno 710 contro i 780 milioni di euro). Nell’Isola, infatti, vi pascolano attualmente oltre 3 milioni di capi ovicaprini (contro poco più di 260 mila bovini), con una produzione annua di circa 3,5 milioni di ettolitri di latte, destinato, per quasi il 90 per cento, a trasformarsi in oltre mezzo milione di quintali di formaggi pecorini. È facile quindi comprendere come questo comparto, ove operano circa 15mila aziende pastorali, rivesta, non solo una posizione “centrale” nell’economia regionale, ma che ha coperto negli anni un’importante funzione, con i sui andamenti talvolta purtroppo altalenanti, nel determinare il benessere od il malessere di gran parte delle nostre comunità rurali.

Ora, per tornare al motivo iniziale che ha dato vita a questa riflessione, due sono i temi che hanno interessato i molti critici ed i commentatori di casa nostra. Il primo attiene al fatto se un’azienda sarda debba e possa internazionalizzarsi, creando altrove (nel caso nella romena Timisoara), esportando l’arte e le tecnologie casearie di casa propria, e producendo prodotti accusati di provocare contrasti competitivi con le produzioni locali. Il secondo motivo, certamente più significativo, riguarda invece l’intera struttura del comparto industriale caseario, nella sua composizione binaria (impianti cooperativi e imprese private), con particolare riguardo ai rapporti con i fornitori della materia prima, cioè sul prezzo del latte da riconoscere al pastore. Se per il primo tema, per avvalorarne l’opportunità e le ragioni, si possono prendere in prestito le parole che il Presidente Mattarella ha pronunciato nei giorni scorsi nella sua visita di Stato in Romania, elogiando e ringraziando quelle nostre imprese che hanno voluto e saputo esportare le loro capacità, le loro esperienze e le loro tecnologie in modo da dare un respiro europeo ed internazionale alla nostra economia («grazie ai nostri 20 mila connazionali, giunti qui da veri pionieri – ha aggiunto – è nato dal nulla il “miracolo Timisoara”, ritenuto ora un vero e proprio caso di studio per come far nascere e sviluppare un moderno distretto industriale»), sul secondo occorre certamente aprire una riflessione più ampia ed articolata. Certamente, per meglio illustrare questo scenario, occorre mettere in campo un convitato di pietra, come nella tragicommedia di Moliére: il pecorino “tipo romano”, da sempre primattore, nel bene e nel male, delle sorti dell’industria casearia dell’Isola. Si dovranno infatti a quest’ultimo, non solo la nascita e l’affermazione di un’imprenditorialità di taglio europeo (si pensi ai Bertolli, agli Albano, ai Pinna), ma soprattutto gli straordinari successi commerciali in mercati lontani, e tradizionalmente difficili, come quelli d’oltreoceano. E questo lungo un intero secolo.

Ci sono dei numeri che ne testimoniano i successi, con produzioni che dai 10mila quintali del 1900 sarebbero giunte dieci anni dopo ad oltre 100mila quintali, per raddoppiarsi nel 1940 fino a giungere ai quasi 600 mila d’oggi. Non vi è dubbio alcuno che il protagonista principale ne sarebbe stato proprio quel formaggio importato: infatti fin dai primi decenni per ogni dieci quintali prodotti nell’Isola otto erano di “romano”, di cui circa sette destinati oltreoceano. Le ragioni di quei successi stavano principalmente nel fatto che quei saporiti pecorini giunti in America dalla Sardegna risultassero i più a buon prezzo fra i formaggi salati da grattugia su quel mercato (meno 30-35 per cento dei vaccini), pur risultando assai prodighi di profitti per i loro produttori.

È chiaro quindi come l’industria casearia sarda sia stata sempre dominata da un mono-prodotto destinato prevalentemente ad un mono-mercato rimasto per lungo tempo quasi egemone. Con tutti gli inconvenienti del caso, considerati gli andamenti ondivaghi ed imprevedibili di quei mercati lontani, con il loro alternarsi da “bull (toro) and bear (orso)”, cioè con il passaggio da momenti rialzisti a ribassisti, e viceversa. Basti pensare – per andare all’attualità – che un chilo di “romano” nel 2000 quotava 4,90 euro per salire poi a 9,38 nel 2015 e ridiscendere a 7,10 nei giorni scorsi. Così il prezzo del latte sarebbe stato fortemente condizionato da quelle variazioni, tenendo presente che sono circa sei e mezzo i litri di latte occorrenti per un chilo di “romano” (con un balzo del prezzo riconosciuto da 64 centesimi a 1,10 euro per ritornare poi a sotto gli 80 centesimi per litro). Per stare quindi ai giorni nostri, c’è dunque un discorso da fare in modo da ridare chiarezza ad un settore lattiero-caseario sempre rimasto in un equivoco chiaro-scuro. E per affrontare quelli che sono (o sarebbero, a nostro avviso) i suoi veri problemi.

Occorre partire dai numeri, sia quelli destinati alla trasformazione che quelli riferiti ai risultati di vendita. Sono all’incirca 3,5 milioni gli ettolitri di latte prodotti annualmente, destinati per la maggior quota (il 60 per cento circa) ai caseifici cooperativi ed il rimanente ai produttori privati. Attraverso la caseificazione vengono prodotti poco meno di 600mila quintali di pecorini, di cui circa la metà a lunga stagionatura (in grande prevalenza “tipo romano”), mentre la restante quantità riguarda formaggi molli, da tavola. Ed è importante ancora tener presente che i tre quarti dei formaggi “da grattugia” vengono prodotti dalle cooperative, mentre per i semi-stagionati e molli, “da tavola”, una quota tra il 70 ed il 75 per cento sarebbe di pertinenza dei privati. C’è necessità quindi di monitorare con attenzione il mercato. Che è particolarmente positivo per i formaggi da tavola (con crescite annue attorno al 5 per cento), mentre è molto statico, se non proprio in regresso, per quelli a lunga stagionatura, da grattugia. Infatti in questi ultimi anni le vendite di “romano”, dirette verso New York ed altri mercati esteri, si sono assottigliate, e non assorbirebbero che poco più della metà delle produzioni annue dell’Isola, con un invenduto che è divenuto particolarmente oneroso, tanto da rendere necessaria l’invenzione, chissà mai se proficua, dei c. d. “pecorino-bonds”. Al contrario, le vendite delle diverse tipologie “da tavola”, risulterebbero particolarmente positive, con ottime performance su tutti i mercati (interni ed esterni all’isola). Si tratta quindi di un indirizzo produttivo in buona salute, che avanza grazie ad uno sguardo sempre molto attento ai gusti del consumatore finale ed alla qualità garantita dal marchio del produttore.

Si delinea così, per questo settore, una situazione bifronte, con le sofferenze solo dalla parte di chi ha inteso mantenere, per inerzia, comodità od inettitudine, l’esclusività produttiva al “romano”, non affrontando quella differenziazione che richiedevano le mutazioni del mercato della domanda. È un quadro, questo, che induce a dover riflettere, cercando di comprendere che il problema da affrontare debba riguardare principalmente il “romano” (per la forte separazione fra quantità prodotte e vendute) ed il comparto dei caseifici sociali, divenuto poco competitivo per le modeste dimensioni produttive di gran parte degli impianti, per la fedeltà quasi assoluta ad un mono-prodotto, oltre che alle evidenti debolezze mostrate nelle gestioni commerciali. Non vi è dubbio, quindi, che l’andamento del prezzo del latte risulti fortemente condizionato da questi due aspetti negativi. Ci sarebbe dunque la necessità di dover mettere in campo una lungimirante politica di settore che abbandoni i logori riti delle assistenze e dei soccorsi contingenti (come i “pecorino-bonds) e si decida di affrontarne con decisione il riordino, mettendo in campo, con degli strumenti premianti, opportuni indirizzi regolatori. Occorrerebbe prendere spunto da quel che è stato fatto altrove – si pensi ad esempio all’esperienza del gruppo Granarolo – dove si è messa in piedi, dopo la crisi degli allevamenti negli anni Sessanta, una realtà comprendente due entità diverse e sinergiche: un consorzio (Granlatte) fra alcune migliaia di produttori di latte ed una società per azioni (controllata dal consorzio) che si occupa della trasformazione e della commercializzazione del prodotto finito, con una ventina di siti produttivi, sparsi dall’Emilia alla Sardegna ed al Cile, e che oggi fattura oltre un miliardo di euro. L’esempio citato appare chiaro: occorre aggiungere al mondo della cooperazione dei saperi industriali e manageriali oltre ad un più attento orientamento a quel che chiede il mercato, in modo da non frustrare le capacità, le esperienze e le esigenze economiche degli allevatori. Perché il male maggiore di cui oggi soffre il settore sta proprio nella mancata sinergia fra tutti questi valori. Può essere questa una “lezione” utile per la Sardegna?

Paolo Fadda

(Economista, già amministratore del Banco di Sardegna)

 

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