Quanto vale la partecipazione della Fondazione nel capitale del Banco di Sardegna?

Nuovo intervento di Amsicora, lo pseudonimo dietro cui lavora un gruppo di economisti e di politici – noto ovviamente a Sardinia Post – che opera per la trasparenza nelle scelte. Ponendo domande, attendendo le risposte. Questo spazio è a disposizione per gli interventi, le precisazioni, le repliche delle persone e degli istituti chiamati in causa.

Il voler conoscere cosa ne sarà della partecipazione azionaria da 350 e passa milioni di euro che la Fondazione detiene nel Banco di Sardegna, non è certo dovuto ad una morbosa curiosità sul “privato” altrui, quanto un atto responsabile di chi ha a cuore gli interessi generali dell’isola. Perché quei milioni sono “pubblici”, di proprietà cioè di tutti i sardi.

Purtroppo, su questa nostre reiterate richieste di informazioni, s’è eretta inspiegabilmente un’impenetrabile cortina di silenzi (e di insofferenze), quasi che con esse si volesse scoprire chissà quale malefatta. Niente di tutto questo, chiariamo: s’intende soltanto conoscere due cose importanti: (a) se la Fondazione ritiene sempre la partecipazione nel Banco di Sardegna strategica per il suo ruolo nella società sarda e, conseguentemente, se (b) intende recuperare un suo ruolo attivo di azionista arginando lo strapotere fin qui messo in atto dalla Bper.

Una risposta riteniamo sia doverosa perché la Fondazione non è “cosa privata” di questo o quell’esponente politico, ma ha in sé delle responsabilità pubbliche nella gestione di un patrimonio che è della collettività dei sardi.
Non vi è dubbio alcuno che sia assai difficile considerarla ente di diritto privato, visto che risulta essere sotto stretto controllo di esponenti politici di lungo corso, e quindi particolarmente esperti, e che è chiamata dalla legge, e dalle autorità ministeriali di vigilanza, ad indirizzare i suoi interventi verso ben individuati settori d’interesse generale e ad evitare, o a limitare determinate forme d’investimento.

Il caso, è giusto precisarlo, non riguarda soltanto la Fondazione sarda, ma l’intero settore delle fondazioni bancarie, giacché appare innegabile che la loro natura ed il loro ruolo risultino – per via di un’escalation legislativa farraginosa e controversa – piuttosto ambigui ed ibridi, tanto da aver consentito ai politici di poter utilizzare come proprio, un patrimonio che non è loro, perché chiaramente d’origine pubblica.

Non è certo solo nostro questo giudizio, giacché un autorevole economista come Luigi Zingales così scriveva sul maggiore quotidiano economico del Paese: «Le fondazioni bancarie sono una fonte inesauribile di potere per i politici in carica, e il refugium peccatorum di ex politici, di politici bocciati dagli elettori, di professionisti e notabili locali, e di amici degli amici. I loro consigli sono designati in gran parte dalle maggioranze del momento di comuni, provincie, e regioni, e in parte dalla cosiddetta “società civile”, cioè da camere di commercio, università; molti vengono addirittura cooptati dal consiglio in carica. Nessuno deve rendere conto a nessuno, eccetto che ai politici se si vuole essere rinnovati».

Anche la grande stampa nazionale, da Repubblica a La Stampa e al Corriere della sera, ha più volte, e con grande evidenza, sottolineato i guasti derivanti da quest’occupazione partitica delle fondazioni bancarie, richiedendo urgenti interventi di revisione legislativa. Per questo, non avrebbe destato molto stupore la tesi (peraltro abbastanza singolare) di un autorevole politico di devolvere quei 50 e passa miliardi di euro, che costituiscono il totale dei loro patrimoni, al Tesoro dello Stato per ripianare il debito pubblico!

Anche degli illustri accademici de “lavoce.com” come Tito Boeri e Luigi Guiso (un sardo di Bitti) hanno ammonito sulla rischiosità del rapporto anomalo ed incestuoso formatosi tra fondazioni e classe politica: per evitarlo, sostengono, è necessario che «la politica, che oggi controlla fino al 75 per cento dei consigli delle fondazioni, faccia un passo indietro. E che lo faccia presto». Aggiungendo ancora la necessità di dover evitare, con legge, la trasmigrazione di amministratori dalle fondazioni ai CdA delle banche partecipate, divenuta causa di troppi incesti viziosi (il caso di Mussari a Siena ne è stata la conferma).

Proprio su quest’argomento anche il prorettore della Bocconi, Stefano Caselli, ha recentemente espresso l’opinione che le fondazioni debbano nominare «nelle banche di riferimento soltanto amministratori indipendenti di comprovata esperienza e capacità tecnica» e che a tal’uopo vengano introdotte delle norme severe che ne regolamentino i procedimenti di scelta.

C’è infatti a monte di tutto, il problema, rimasto irrisolto, dei rapporti delle fondazioni, divenute feudo della politica, proprio con le banche in cui hanno partecipazioni. Tema, questo, che va animando, anche in queste ultimi mesi, appassionate discussioni fra tanti esperti dell’economia e della finanza: il contrasto verte se le fondazioni debbano uscire definitivamente e completamente, o meno, dall’azionariato delle banche.

Ora, per meglio intendere le ragioni di questo contrasto d’opinioni, occorre meglio analizzare una realtà che è segnata da forti diseguaglianze. Infatti tra le ottanta e più fondazioni esistenti, circa i due terzi di esse sono presenti singolarmente nel capitale della banca conferitaria, mentre le rimanenti partecipano congiuntamente all’azionariato di grandi banche nazionali quali, ad esempio, Unicredit e Intesa San Paolo (nel capitale della prima, ad esempio, sono azioniste quattro o cinque fondazioni del lombardo-veneto, legate fra loro da un patto di sindacato).

Questo fatto provoca una profonda diversità d’opinioni. Se le prime ritengono di dover difendere prioritariamente l’autonomia territoriale del “loro” istituto di credito, in difesa cioè della partecipazione perché esso rimanga all’interno dell’economia locale, le altre paiono maggiormente interessate a voler subordinare, ad interessi extralocali o di lobbies di potere, gli indirizzi ed il management di quelle grandi banche (le cronache hanno registrato gli spericolati e costosi salvataggi di imprenditori amici in evidente default ed anche la cacciata di manager divenuti scomodi perché non allineati a quelle pretese).

Non vi è dubbio alcuno che le continue istanze di autorevoli esponenti dell’economia perché le fondazioni vengano costrette “ope legis” ad uscire completamente dall’azionariato delle loro banche, trova origine nel comportamento, non certo ortodosso e virtuoso, di questo secondo gruppo di fondazioni (in primo luogo quella della Cariplo, del San Paolo e di Verona).

La Fondazione sarda, ovviamente, si colloca invece fra le prime. E come tale dovrebbe essere chiamata a difendere l’autonomia ed il radicamento territoriale del Banco di Sardegna di cui è azionista. Ora, molti segnali indurrebbero a dover ritenere che quell’autonomia non ci sia più, e che il Banco si sia ridotto ad essere un semplice esecutore delle decisioni strategiche prese in quel di Modena. Tanto che, a leggere con attenzione gli indirizzi operativi dettati dal gruppo emiliano-romagnolo, se ne potrebbe dedurre che il direttore generale del Banco non sia altro che un sottoposto dell’omologo della “Grande Bper”. E ad esso debba “rispondere” prima ancora che al CdA del Banco.

Se queste notazioni rispondessero a verità, parrebbe evidente che si sarebbero verificate delle falle, o delle omissioni,  anche solo per una caduta d’attenzione, da parte della Fondazione nei suoi compiti di vigilanza (e di tutela dei propri interessi) come azionista del Banco. O, per altro verso, se quanto rilevato fosse invece dovuto ad una decisione responsabilmente e ponderatamente assunta da quella parte di politici che oggi controlla strettamente la Fondazione, se ne vorrebbe avere conferma e motivi.

Per dirla ancor più chiaramente, se il voler disfarsi del destino del Banco sia stata una decisione assunta da quella parte politica che è oggi al governo della Fondazione e della Regione, occorre saperlo con chiarezza. Anche perché se ne dovrebbe assumere, pubblicamente, le conseguenti responsabilità politiche (meriti o demeriti che le compongano). Noi di Amsicora (e con noi i molti che condividono quest’idea) siamo dell’opinione che l’economia isolana ha necessità di una banca locale, e che la struttura di risorse e di relazioni, oltre al background di esperienze e di conoscenze in possesso dei quadri intermedi del Banco, non possono, né debbono essere abbandonati, destinandoli ad un patrimonio extraregionale.

Non paia, questa, un’osservazione di sapore campanilistico o motivata da interessi personali o da orgogli localistici. Essa nasce da una valutazione esclusivamente tecnica: l’esistenza, cioè, di una verificata e sperimentata correlazione virtuosa tra le politiche pubbliche per lo sviluppo ed il radicamento locale di validi enti creditizi. Un tema, questo, su cui si sta da mesi cercando di fare breccia, sbattendo peraltro sul muro di gomma innalzato dai vertici regionali della Giunta, della Fondazione e del Banco.

Né vengono fornite informazioni e chiarimenti su come verrà realizzato l’invito del ministero dell’Economia a dover limitare l’investimento nel Banco ad un terzo del valore del proprio patrimonio. Ad oggi, per quel che consta, la quota azionaria risulterebbe superiore a quel limite. Cioè nulla si sa se, come, a chi ed a quanto verrà collocato quanto eccedente.

Operazione questa che, se attuata, dovrà rispettare gli accordi sottoscritti nel 2013 con la Bper, e tuttora vigenti, che così recitano: «qualora la Fondazione intenda trasferire in tutto o in parte le proprie azioni essa dovrà offrirle a Bper che potrà esercitare il diritto di opzione all’acquisto dell’intero quantitativo di azioni offerto». C’è poi un’ulteriore aggiunta che precisa che, in difetto di quella prelazione, i potenziali terzi acquirenti dovranno comunque sottostare «al preventivo gradimento della Bper».

Pare giusto ricordare che questa clausola aveva suscitato la severa critica di un autorevole esponente democratico come Arturo Parisi che, senza giri di parole, aveva chiesto duramente alla Fondazione di chiarire pubblicamente le ragioni che l’avevano indotta a concedere questo vantaggio-regalo al socio modenese: purtroppo anche allora il muro del silenzio ebbe il sopravvento.

Dobbiamo quindi tener presente che da allora – cioè dall’ottobre 2013 – ogni quantitativo di azioni che si deciderà di cedere dovrà essere prioritariamente offerto alla Bper. Per questo crediamo che sia necessario porsi una prima domanda: quanto varrà, allo stato attuale, la partecipazione della Fondazione nel capitale del Banco di Sardegna?

Nell’ultimo bilancio della Fondazione, approvato nel 2014, il valore viene indicato in 352.158.298,57 di euro con la precisazione che esso è però iscritto al valore contabile che avevano le azioni al momento della costituzione nel 1992. Tanto da avere aggiunto che «tale valore risulta peraltro inferiore al cosiddetto ‘valore di libro’ del Banco, cioè a quello che scaturisce dal valore del patrimonio netto come indicato dalla banca». In concreto, euro più euro meno, si arriverebbe a circa 550 milioni “contabili”.

Ma per effettuare un’offerta alla Bper, come prevedono gli accordi, è chiaro che si dovrebbero avere dei supporti valutativi più obiettivi, attraverso una stima effettuata da un advisor indipendente, di accertato valore e di notoria competenza, oltre che estraneo al mondo delle “banche popolari”.

Ora, visto che si dovrà scendere da quel 49% detenuto, e che un’ipotesi di cessione, tra il 20 ed il 30%, è stata anche ventilata dal presidente Antonello Cabras, ci si domanda: sarebbe stata già effettuata, quando e da chi, una valutazione della partecipazione? Qualora invece non sia stata fatta, si penserebbe di affidarla ad un advisor veramente indipendente? E se invece è stata già effettuata, quale valore le è stato attribuito?

Queste domande non sono di certo peregrine, o fuori luogo, giacché non si vorrebbe assistere ad una replica di quanto accaduto nell’operazione Sardaleasing, in cui la valutazione venne fatta, come molti hanno ipotizzato,  a condizioni particolarmente favorevoli alla Bper e da un advisor rimasto peraltro innominato.

Le domande sono poi giustificate e pertinenti, perché quel 49% fa parte del patrimonio di proprietà della comunità dei sardi, e ad essa la Fondazione è chiamata a risponderne. Certo, queste domande le dovrebbe porre innanzitutto la politica sarda, cioè la Regione nella sua massima espressione del suo presidente. E, non secondariamente, lo stesso partito di maggioranza che detiene il potere in Regione e in Fondazione attraverso il suo autorevole segretario regionale.

Riproponiamo questi temi, su cui abbiamo già lungamente esposto le nostre tesi, perché riteniamo che sia necessario ed urgente che quanto si andrà a decidere sulla triangolazione Fondazione-Bper-Banco di Sardegna si apra un confronto aperto e trasparente perché – citiamo ancora Parisi – la trasparenza delle decisioni è l’unica garanzia che consente alla politica di operare e di essere al servizio degli interessi della collettività sarda.

Amsicora

 

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