IL SÌ AL REFERENDUM. Ganau: “Liberiamoci dalle trivelle entro le 12 miglia”

In questa intervista a Sardinia Post il presidente dell’Assemblea sarda, Gianfranco Ganau, spiega le ragioni del Sì. E anche il nodo politico del referendum.

Sardinia Post ha chiesto a Gianfranco Ganau di spiegare le ragioni del sì al voto di domenica. Era infatti fine novembre 2015, quando il presidente del Consiglio regionale andò a Roma per depositare in Cassazione la richiesta di referendum abrogativo contro l’illimitatezza delle concessioni estrattive a mare, inserita dal governo di Matteo Renzi nella Legge di stabilità. Due mesi prima (il 23 settembre) Ganau aveva ottenuto il mandato dall’assemblea regionale che, col solo voto contrario del dem Gavino Manca, si era espressa a favore della consultazione popolare, allineandosi alle posizioni espresse dai Consigli regionali di Basilicata, Marche, Molise, Puglia, Abruzzo, Veneto, Calabria, Campania e Liguria. Da allora è successo che il Pd, il partito dello stesso Ganau, si è diviso. Ma il capo dell’Aula di via Roma non è mai tornato indietro. E anzi: nell’Isola è stato l’unico esponente democratico a contestare i vicesegretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini, quando a marzo invitarono all’astensione (leggi qui).

Presidente, ci siamo: domenica si vota mentre si continua a dire che il referendum non serve a bloccare le trivelle.

Falso. Votare sì domenica significa eliminare definitivamente le trivelle entro le dodici miglia, visto che in questa fascia di mare sono vietate per legge nuove autorizzazioni. E dunque solo ripristinando la scadenza a quelle già esistenti, come si chiede nel quesito referendario, possiamo liberare i nostri mari.

Francesco Pigliaru la correggerebbe, spiegando che “nostri mari” è da intendersi come italiani e non sardi. Il governatore sostiene che il referendum non interessa l’Isola, già tutelata dal rischio trivelle entro le 12 miglia in quanto regione a statuto speciale.

L’Italia ha partecipato ai lavori della Cop21, lo scorso dicembre. E proprio nella conferenza di Parigi si è deciso di ridurre del 40 per cento, entro il 2050, la dipendenza energetica dai combustibili fossili, puntando sulle rinnovabili. Si aggiunga che le ventitré scadenze di concessioni sulle quali si vota domenica rappresentano l’1 per cento delle risorse italiane di petrolio e gas. Ma se non si riesce a fare a meno di quella quota risibile, mi pare difficile centrare gli obiettivi di Parigi. Il referendum del 17 aprile è dunque di fondamentale importanza, rappresenta il primo tassello della virata che l’Italia deve compiere in materia energetica. E la Sardegna non è affatto blindata, dal momento che solo impostando nuova politica nazionale verrebbe meno l’esigenza di nuove trivellazioni, come nel progetto della società norvegese Tgs Nopec o come la Saras vuole fare ad Arborea.

A proposito: parlare di ventitré concessioni dà l’idea di un numero marginale. E questa è un’altra clava brandita dagli anti-referendari.

Le attuali ventitré concessioni corrispondono 135 piattaforme. Non stiamo parlando di piccoli specchi di mare. Di più: una volta ottenuta la scadenza illimitata della concessioni, le società petrolifere potrebbero decidere di estrarre solo la quota minima di combustibile, magari proprio quella che garantisce l’abbattimento delle tasse. Le quali sono azzerate per le prime 50mila tonnellate di greggio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas. Nel 2015 le royalties incassate dal Fisco sono state pari a 340 milioni di euro, un’inezia.

Per convincere gli elettori il comitato del no ha messo sul tavolo il problema del lavoro, con migliaia di potenziali esuberi.

Un falso problema: come riferito a marzo dal ministro Galletti, gli occupati nelle piattaforme sono 74. E anche considerando i 5mila dell’indotto, c’è tutto il tempo per arrivare a una riconversione degli addetti. Lo insegnano gli Stati Uniti che, per sfilarsi dalla concorrenza del greggio arabo, hanno puntato sulle rinnovabili aumentando di quattro volte il numero degli occupati. Ma c’è anche l’esempio della Croazia, che ha deciso lo stop alle trivellazioni. Di questi giorni la moratoria che la Francia vuole chiedere dopo l’incidente nella Loira. Non va dimenticata la decisione del governo olandese di vietare, dal 2026, la produzione di macchine che vanno a benzina o a gasolio. Mi pare che l’Italia abbia tutto il tempo, se solo ci fosse la volontà, per ridurre la dipendenza dal petrolio.

Oltre a Pigliaru (qui la posizione del governatore), le ha voltato le spalle pure Renato Soru. Nella Direzione regionale del 2 aprile, il segretario del Pd ha parlato di “referendum inutile“. Il suo partito l’ha un po’ lasciata da solo.

Nient’affatto. Nella stessa Direzione del 2 aprile la maggior parte degli interventi furono a favore del sì. E in questi giorni che sto girando la Sardegna, tutte le iniziative alle quali partecipo sono organizzate dalle federazioni territoriali del Pd. Quella di Oristano, per esempio, da subito si è espressa a favore del referendum.

Ma i consiglieri regionali, quei quindici che votarono sì alla richiesta di referendum, sembrano essersi dileguati. Ricordiamo i nomi: Pietro Cocco, Roberto Deriu, Salvatore Demontis, Alessandro Collu, Piero Comandini, Lorenzo Cozziolino, Daniela Forma, Luigi Lotto, Giuseppe Meloni, Cesare Moriconi, Valter Piscedda, Rossella Pinna, Gigi Ruggeri, Franco Sabatini, Gianmario Tendas,

Il 23 settembre scorso l’Assemblea votò un pacchetto di sei quesiti referendari. Che poi ne sia rimasto uno, non è certo un buon motivo per rinunciare all’impegno preso in Aula. Gli altri cinque quesiti, peraltro, sono stati accantonati perché si è ottenuta la correzione della Legge di stabilità, dopo un intenso confronto col Governo. In sintesi, i Consigli di Basilicata, Sardegna, Marche, Molise, Puglia, Abruzzo, Veneto, Calabria, Campagnia e Liguria hanno ottenuto che, in materia di pareri e autorizzazioni, siano le regioni ad esprimersi e non l’Esecutivo.

Il quorum si raggiungerà?

È un traguardo difficile. Alle Politiche del 2013 era andato alle urne il 56 per cento degli italiani. E per questo è un fatto che grave che il Pd, il primo partito del nostro Paese, abbia invitato all’astensione, salvo poi correggere il tiro con la libertà di voto. Il Governo non ha scritto una bella pagina della democrazia nemmeno quando ha scelto di non accorpare il referendum alle Amministrative: l’election day avrebbe portato anche a un risparmio di 350 milioni. Tutto questo è stato deciso il 15 febbraio, obbligando il comitato referendario a una campagna elettorale brevissima. Vero che i fatti di Tempa Rossa hanno acceso le luci dei riflettori sugli affari petroliferi in Italia, ma il premier ha sbagliato a pensare che il voto sulle trivelle fosse un test politico sulla sua azione di governo. Ripeto: in discussione c’è solo il futuro energetico del nostro Paese.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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