IL NO AL REFERENDUM. Parisi: “Evitiamo di comprare idrocarburi dall’estero”

In questa intervista rilasciata giovedì a Sardinia Post, l’ex ministro Arturo Parisi spiega le ragioni del No al referendum sulle trivelle.

In questa lunga intervista rilasciata giovedì a Sardinia Post, l’ex ministro Arturo Parisi spiega le ragioni del No al referendum sulle trivelle. Sociologo dei fenomeni politici con cattedra a Bologna, capo della Difesa italiana nel secondo governo Prodi (2006-2008) e sottosegretario alla presidenza durante il Prodi I (1996-1998), Parisi traccia anche il confine tra astensione e astensionismo, come nella cifra politica dello scontro che per questa consultazione popolare sta dividendo il Partito Democratico. Il Pd di cui l’ex ministro è stato uno dei padri fondatori, tuttora protagonista nella veste di saggio.

Professore, domenica c’è il referendum contro la durata illimitata delle concessioni estrattive a mare, quelle già esistenti e che ricadono nella fascia delle dodici miglia. Perché lei voterà No?

Che domenica prossima sarei andato a votare, e a votare No, l’ho deciso e detto da tempo. Da tempo sono quindi preparato alle delusione che la mia scelta potrebbe produrre su entrambi i fronti. Da una parte la delusione di quanti, senza farla troppo difficile, ritengono che il miglior modo per battere il Sì sarebbe quello di neutralizzare il referendum aggiungendo una piccola quota di astensioni alla quota di cittadini, purtroppo già rilevante e crescente, che si tiene da tempo lontana dalle urne. Dall’altra la contrarietà dei rappresentanti ufficiali dei Consigli Regionali che, convinti all’opposto delle ragioni del Sì, hanno promosso il referendum in nome del loro titolo generale di rappresentanza dei loro cittadini senza aver previamente provveduto a altra verifica del loro orientamento al riguardo. Anzi: dopo aver misurato il loro interesse in occasione della fallita raccolta delle firme con lo stesso obiettivo.

La prima bordata al comitato referendario è servita.

Almeno in Sardegna, che è una delle Regioni promotrici, ambedue le parti contrapposte sono in nostra rappresentanza e ambedue in modo assolutamente legittimo sulla base di argomenti tratti dalla stessa Costituzione. Mai come questa volta il cittadino è solo all’incrocio di pressioni contrapposte, solo col suo dovere di scegliere e il suo diritto di sbagliare. Glielo dico da cittadino.

Entrando nel merito del quesito referendario, perché ha deciso di opporsi ai referendari?

Detto dei limiti di ogni scelta, del Sì come del No, e quindi della necessità di ritornarci sopra quale che sia il risultato del voto, nell’esporre i motivi del mio No mi faccia innanzitutto riconoscere le ragioni che sento comuni con i sostenitori del Sì: l’urgenza del passaggio crescente all’uso di energie rinnovabili e dunque della loro massima e ulteriore incentivazione. Questo non è tuttavia in contrasto con la necessità che questo passaggio, per quanto attuato il più rapidamente possibile, debba essere fatto con criterio e nel rispetto degli interessi del Paese.

Possiamo dire che esiste più di un filo rosso tra la decisione di chiudere le piattaforme estrattive nella fascia delle 12 miglia e gli obiettivi della Cop21 di Parigi per tagliare del 40 per cento la dipendenza dai combustibili fossili entro il 2040?

La decisione alla quale dobbiamo rispondere è se le imprese e solo le imprese che già oggi operano entro le dodici miglia, possano continuare la loro attività estrattiva fino al naturale esaurimento dei giacimenti esistenti assicurando, nel quadro di una fase di progressivo mix energetico, quella quota di gas e di petrolio che saremmo altrimenti costretti ad importare ancora per anni dall’estero. Come ha sintetizzato Romano Prodi, l’alternativa che domenica abbiamo di fronte non è tra idrocarburi o energie rinnovabili, ma tra comprare dall’estero anche la quota di idrocarburi che in questo momento produciamo noi stessi o continuare a produrla autonomamente fino all’esaurimento dei giacimenti.

In questo scenario da lei disegnato, dove si colloca il Sì e dove il No?

Chi è impaziente di anticipare al massimo il traguardo finale senza guardare ai costi e alle perdite che questo comporta, voti Sì. Chi invece ha presente i danni che la chiusura immediata degli impianti non può non apportare al nostro sistema industriale per la perdita degli investimenti e la fuga degli operatori stranieri sconcertati dalla continua instabilità delle nostre regole, non può che votare No. Questo senza contare i costi che l’estrazione e gli approvvigionamenti di idrocarburi dall’estero inevitabilmente comporta sul piano della sicurezza e, fatemelo dire, del sangue. Lo dico da ex Ministro della Difesa guardando alla nostra dipendenza dalla stabilità dei Paesi del Nord Africa e pensando anche a recenti episodi luttuosi nei quali lavoratori nostri connazionali, come il nostro Fausto Piano e Salvatore Failla, hanno messo a rischio e sacrificato le loro vite per assicurare all’Italia i rifornimenti necessari. Ma fino a quando saremo immersi nella attuale transizione energetica, ci piaccia o non ci piaccia, questa è la natura della scelta a noi di fronte. Una scelta dura che non consente, anche a chi come me vota No, di dimenticare le ragioni del Sì e quindi spendersi perché la transizione per il cui compimento tutti assieme dobbiamo batterci sia la più rapida possibile.

La svolta, il salto che l’Italia può fare da cosa dipende?

Da questo punto di vista mi dispiace che anche chi ha fatto riferimento alla posizione di Prodi, forte della sua esperienza di uomo di governo e di economista industriale, non abbia invece raccolto la proposta con la quale ha accompagnato la sua scelta per il No. Mi riferisco al suo invito al Governo “a dedicare tutte le risorse che arriveranno dalla continuazione dei proventi derivanti dagli attuali giacimenti per incentivare la ricerca, la produzione e la conservazione delle energie rinnovabili”. Questo anche perché in questo settore “siamo quasi esclusivamente importatori dall’estero delle necessarie tecnologie e abbiamo dato un contributo del tutto trascurabile alla loro innovazione”.

L’appuntamento di domenica è diventato un test politico, soprattutto per il Pd che ha invitato all’astensione. Perché lei, che il Partito Democratico lo ha fondato, sul referendum ha scelto una posizione diversa?

Perché rifiuto l’idea che ogni cosa si trasformi in un test politico, e non condivido i motivi dell’appello all’astensione. Come le ho detto, pur votando No, ho piena consapevolezza e quindi rispetto di ogni scelta di voto. E mi riferisco al tema, non a chi lo usa in modo strumentale solo per andare contro o a favore di qualcuno. Non ho invece incertezze per me sulla necessità di andare alle urne e di invitare altri a farlo, spiegando le ragioni del votare e del voto. E non lo dico perché ritenga illegittima la scelta di astenersi. Nel caso dei referendum, votare è un diritto e allo stesso tempo una scelta, non un dovere. Astenersi è una delle alternative a disposizione dell’elettore. Esattamente come il Sì, il No e il voto bianco. Una scelta prevista dalla Costituzione per produrre effetti diversi dalle altre. Mi ha quindi sorpreso che autorità senza carico di responsabilità politiche, come il Presidente della Corte Costituzionale, lo abbiano proposto come un dovere giuridico e morale.

E l’invito del Pd all’astensione?

La scelta del Pd di invitare ad astenersi non la condivido. Non la condivido, come ho detto, non per motivi pregiudiziali, ma visto il momento e in relazione al tema. Astensione è una cosa diversa da astensionismo. Astensione è un comportamento che si può decidere volta per volta: mi auguro in modo consapevole e a ragion veduta. Astensionismo è invece l’atteggiamento di chi tende a starsene stabilmente fuori. Astensionismo è una tendenza in questo momento diffusa e crescente che va mettendo ogni giorno di più la cosa pubblica in mano di un numero sempre minore di cittadini. Le parlo da Bologna, un tempo capitale della partecipazione, dove alle ultime Regionali che siamo già riusciti a dimenticare, sono andati a votare meno di quattro elettori su dieci. E oggi, mentre anche qui per domenica si scommette sulle urne vuote, i giornali danno conto della paura che avvenga lo stesso nelle Comunali del 5 giugno. Non è con l’astensione che ce l’ho. Quella che mi preoccupa è invece la tentazione o il rischio che l’invito ad astenersi spiegato male alimenti l’astensionismo in corso. Quello che mi preoccupa è scommettere sull’astensionismo guidati dalla convinzione che quello che conta è il risultato, comunque lo si raggiunga.

Il premier Renzi, l’altro ieri, si è detto dispiaciuto per l’assenza delle opposizioni a Montecitorio sulla riforma costituzionale, poi però fa propaganda per l’astensione al referendum. Ritiene che sia una posizione istituzionalmente corretta?

Sarebbe stato meglio spiegare le ragioni del No scommettendo su una partecipazione profonda piuttosto che su una astensione leggera. Sarebbe stato meglio puntare a convincere piuttosto che accontentarsi di vincere. Fare di questo referendum una occasione di crescita della consapevolezza collettiva e della cultura politica. Investire appunto sulla scelta politica, una scelta che al di là dei limiti specifici del tema evoca un tema profondo. Si immagini se nel referendum di ottobre (sulla riforma costituzionale), con l’argomento che non prevede quorum, i cittadini continuassero a starsene a casa. C’è qualcuno che riesce a vedere qualcosa di buono in una Carta Costituzionale, già varata in una Aula semi vuota, che dovesse essere approvata dalla minoranza assoluta dei cittadini? O anche in quel caso ci accontenteremmo del fatto che tanto quello che conta è il risultato formale? Ecco perché sono preoccupato. Ecco perché domenica vado a votare.

Scenario più ottimista: sulle trivelle non vince l’astensione. E anzi, contro le previsioni di Renzi e della maggioranza Pd, si raggiunge il quorum e prevale il Sì. Ci sarebbero ulteriori contraccolpi per il Governo già travolto dall’inchiesta sul petrolio in Basilicata?

Sarebbe fuori luogo. Non foss’altro perché è difficile riconoscere dove passano i confini di partito, sia tra chi domenica si recherà e chi resterà invece a casa, così come tra chi il referendum lo ha promosso e chi lo ha contrastato. Ma purtroppo in questo clima da rissa e da braccio di ferro permanente sono preparato a tutto.

Il governatore Francesco Pigliaru ha già annunciato il suo voto contrario sostenendo, tra le altre cose, che sulle trivelle “la Sardegna non è mai stata a rischio perché nella Legge di stabilità è stata introdotta una norma di salvaguardia per le regioni a statuto speciale”. Guardare in casa propria è un motivo sufficiente per opporsi a una consultazione popolare?

Questo è un referendum nazionale su un quesito nazionale. Al di là delle argomentazioni sono sicuro che il presidente Pigliaru lo abbia ben presente. Anche se sarà difficile non interrogarsi sul voto dei cittadini in una Regione come la nostra, dove nella richiesta del referendum sulla quale si è espressa l’Assemblea regionale è mancato all’unanimità soltanto il voto di un consigliere (il dem Gavino Manca).

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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