La dinastia mineraria del precariato

E’ cominciato fin dal dopoguerra (ma secondo alcune interpretazioni anche prima, fin dal tempo del fascismo e dell’esaltazione autarchica del già scadente carbone sulcitano) e nelle famiglie baciate dalla buona sorte continua a trasmettersi di generazione in generazione. Consiste nel lavorare duramente con la paura perenne di perdere il posto, senza in realtà perderlo.  Per i Zanda di Fluminimaggiore, paese di poco più di duemila abitanti a pochi chilometri dal mare quasi oceanico di Portixeddu e di Piscinas, la porta d’ingresso in questo mondo si aprì  nel 1943 quando il capostipite Emilio, allora poco più che diciottenne e soldato, fu ferito da una scheggia.

L’acquisizione dello status di invalido di guerra gli aprì le porte del “collocamento obbligatorio”.  Fu assunto come guardiano prima nella miniera di Acquaresi, poi in quella di Santa Lucia. Divenne testimone privilegiato dell’eterna lotta per contro lo smantellamento delle miniere. Proteste, scioperi, occupazioni sono i ricordi d’infanzia di Massimo, il primogenito di sei figli tutti emigrati, l’unico a essere rimasto in Sardegna a presidio del precariato senza fine: lavora come meccanico alla Carbosulcis, ha 58 anni, 36 di contributi, e per via della riforma Fornero dovrà attenere il 2018 prima di andare in pensione. “La tranquillità  del posto di lavoro qua non è mai esistita. Ero un ragazzino quando chiusero la miniera di ferro di Antas, la ‘miniera della Fiat’, la chiamavamo in paese. Cominciò a circolare la storia che gli Agnelli non sapevano nemmeno di averla, se n’erano dimenticati. E che erano state le proteste dei minatori a farglielo ricordare.

Non se ne facevano niente e decisero di chiuderla…”  Massimo Zanda sorride: sa che le cose non andarono esattamente così. Dopo anni di ricerche, la Fiat arrivò alla conclusione che il minerale di Antas aveva un basso tenore di ferro ed era impuro, un po’ come il carbone di Nuraxi Figus. Ma la leggenda del capriccio degli Agnelli, del privato che al contrario del pubblico può fare qualunque cosa, è una perfetta sintesi dell’idea del mondo che si è formata con  la pubblicizzazione, a partire dalla fine degli anni Sessanta, dell’intero comparto minerario. Sostenuta dal proposito virtuoso di una “politica coordinata di settore”, divenne soltanto uno strumento per “salvaguardare, non senza fatica, gli impianti” e per contenere “lo stillicidio della caduta produttiva e occupazionale”.

I virgolettati non vengono da un documento sindacale di questi giorni, ma dalla voce “L’industria mineraria” (curatore Giorgio Mereu) della Enciclopedia della Sardegna (Edizioni La Torre, 1982). In casa Zanda il passaggio del testimone del precariato eterno si compie a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Nel 1978 il capostipite Emilio va in pensione e Massimo, rientrato dal servizio miltare, comincia a lavorare nell’industria, si avvicina alla Cgil, partecipa alle proteste contro la chiusura della miniera di Santa Lucia, si becca una denuncia per blocco stradale e, nel 1982, fa domanda di assunzione alla Carbosulcis.

“Ero già un operaio specializzato, ma dopo la fine del corso aziendale e la nuova specializzazione da manutentore meccanico, fui assunto al livello più basso: l’assicurazione contro gli infortuni e ottomila lire al giorno…” E’ un’altra caratteristica dell’anomalo eterno  precariato sulcitano: una lotta continua per mantenere un posto che molti rifiuterebbero.  Col padrone che cambia   nome  – Carbosarda, Enel, Egam, Eni, Regione Sarda, Carbosulcis – tanto che si fa fatica a ricordare quale fosse in quel certo anno, durante quella certa lotta. “Ma nel 1994, quando arrivammo a Roma in 70 e bloccammo il centro della città  era sicuramente ancora l’Eni in fuga. Ci vide Sandro Curzi che chiamò un mucchio di giornalisti.

Senza quell’intervento credo che ci avrebbero manganellato”. Anche quella volta i posti furono salvi. Con un nuovo cambiamento di padrone (dall’Eni alla Regione) e con altri soldi pubblici. D’altra parte,  nel decennio precedente (1985 – 1996) era stata spesa una cifra che, se fosse stata assegnata direttamente ai lavoratori, avrebbe dato a ciascuno di loro una dote di un miliardo di lire e un reddito mensile di 1400 euro per vent’anni senza intaccare il capitale iniziale.  “La politica non avrebbe avuto da mangiare…”, commenta laconicamente Zanda. Piani faraonici sullo sfondo di una quotidianità dignitosamente modesta.  Con i magri redditi da lavoro integrati dai frutti dell’orto: “Quando ero ragazzo non c’era famiglia che non l’avesse. Una volta mio padre ne fece uno in una di quelle fosse dove i cinghiali vanno a rinfrescarsi. Era come la terra del Nilo, fertilissima, portava a casa ogni ben di Dio” .

Tra economia locale, stipendi delle miniere, e rimesse degli emigrati Fluminimaggiore era un paese ricco. Chi non trovava il posto fisso, trovava comunque qualcosa da fare per mettere assieme una paga: muratore a giornata, raccoglitore stagionale di frutta, cameriere nelle zone turistiche. Che erano altrove, nonostante questo mare spettacolare, perché la cultura mineraria integrale basta a se stessa, non fa crescere altro, proprio come sulla terra i detriti della lavorazione. Ma non c’era bisogno della macchina allora. Il ricordo di Massimo Zanda degli anni del boom è il giorno in cui il padre andò a dare l’esame per il patentino annunciando alla famiglia: “Se lo passo compro la Vespa, se mi bocciano prendiamo la televisione”.

Ora Fluminimaggiore è un paese in via di spopolamento. Sono rimasti pochissimi giovani, e sono quasi tutti disoccupati. E nella famiglia Zanda le macchina sono tre. Una per il padre, le altre per i due figli. “Quando hai un posto fissoe puoi pensare di farne a meno, ti organizzi coi trasporti pubblici. Ma se cerchi lavoro è indispensabile, perché devi volare dove ti chiamano”. La disoccupazione è anche cara. Nicola ed Emiliano, 30 e 32 anni, i prosecutori della dinastia degli Zanda,  hanno ascoltato. Ora affettuosamente ricordano al padre quel “diplomatevi e avrete un posto” ripetuto in anni che ora sembrano lontanissimi. “Oggi anche lavorare in nero è molto complicato”, dice Emiliano che ha fatto di tutto: dipendente di una anguillaia, operaio all’Enel di Portovesme, in una ditta privata di Carbonia, con un contratto a termine alla Carbosulcis per la realizzazione dell’impianto di pompaggio delle ceneri del carbone. Non ha mai trovato un’ occupazione precariamente stabile. Nicola, invece, un paio di settimane “ha vinto al superenalotto”. Dice proprio così, con la faccia di uno che ancora non ci crede.

E’ lui l’erede involontario di questa nobile dinastia dell’ansia operaia. La lettera di assunzione gli è già arrivata, ma ha una specie di paura scaramantica che possa accadere qualcosa: un intoppo burocratico, un pasticcio. Dopo dieci anni di tentativi, di domande e di concorsi gli è difficile capacitarsi del “miracolo”.   “A giugno un amico mi ha segnalato un bando della Glencore di Portovesme. Bisognava solo fare la domanda on line. Senza alcuna speranza, l’ho inviata. Dopo qualche giorno mi hanno chiamato per un colloquio. Mi hanno assunto. Come apprendista”. Per tre anni. Se saranno veri, senza paure di chiusura, sarà un “tempo determinato” ben più lungo di quello “indeterminato” sulcitano.

Giovanni Maria Bellu

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