Settant’anni di Statuto speciale. Le occasioni perdute, l’obbligo di rinnovare l’idea autonomistica

La Sardegna, come regione autonoma della Repubblica italiana, sta per compiere 70 anni: un tempo di certo non breve, per cui varrebbe la pena rivisitare con attenzione il cammino percorso. Cercando di analizzare su come si sia configurato il rapporto tra i sardi, la maggioranza dei sardi, e l’autonomia. D’essere cioè stati capaci, o meno, di autogovernarsi, di saper procedere, con le proprie idee e con la propria volontà, sulla strada dello sviluppo, riagganciando lo status socio-economico delle regioni continentali.

Per poter dare una risposta coerente sulla valenza della capacità di autogovernarci e di utilizzare così al meglio lo Statuto speciale concessoci dalla Costituente, occorrerebbe analizzare il rapporto tra gli obiettivi della speranza posti all’avvio dell’esperienza (1949) ed i consuntivi registratisi nei decenni successivi. Occorre ricordare che alla nascita della Regione autonoma, l’Isola presentava un’economia dominata dall’agricoltura dove trovava impiego quasi il 50% della sua forza lavoro, spesso in un regime di sott’occupazione (basti pensare che il monte-salari degli occupati nelle miniere e nell’edilizia, pari al 23% del totale, era assai maggiore di quello espresso dai lavoratori agricoli). La speranza riposta nell’’autonomia erano quindi di poter replicare anche nell’Isola quel “miracolo economico” che stava trasformando l’Italia in una nazione industriale come Inghilterra e Francia.

In effetti, per rendere più comprensibile quest’analisi, si dovrebbe suddividere questo tempo in tre cicli: il primo, dal 1949 al 1969,  il ventennio della crescita e della trasformazione; il secondo dal 1970 al 1999,  il trentennio caratterizzato dal fermo e da un lento declino e il terzo, infine, dal 2000 a oggi, il ventennio dell’inazione e della decrescita. Che, misurato con il reddito per abitante su quello medio del centro-nord del Paese, avrebbe visto i sardi passare dal 59% all’88%  per poi ridiscendere di quasi 20 punti percentuali. Cioè per i primi vent’anni si crebbe assai più del centro-nord, per poi rallentare e fermarsi, accumulando nuovi e pesanti ritardi. Ma anche da un punto di vista culturale, cioè come valore dell’autonomia speciale concessaci nel ’48, varrebbe la stessa scansione temporale, con il primo ventennio caratterizzato da un’autonomia “forte e volitiva”, per poi discendere pian piano nella coscienza dei sardi, fino a divenire oggi, come sostengono molti, “debole ed inutile”.

Certamente oggi non si è davanti a un compito facile, perché le variabili e le incognite nei diversi processi instauratesi nell’Isola (le diverse leggi per la Rinascita, le crisi industriali ed energetiche, la fine delle legislazioni speciali e della Casmez, la scomparsa del capitalismo pubblico, ecc.) hanno certamente sconvolto situazioni esistenti e piani in fieri. Tanto che sembrerebbe necessario ricostruire, prima di tutto, come i sardi, e le loro élite, abbiano utilizzato l’autonomia come strumento operativo per costruire progresso. E questo nei sette decenni di autogoverno. Perché sembrerebbe emergere un vizio originale, quello d’una genesi quasi nominalistica insita nella cultura autonomistica. Pur consapevoli del peccato di radicalizzazione, sembra giusto sottolineare come quella cultura, nelle sue differenti declinazioni, non abbia mai raggiunto, nell’universo dei sardi, la piena consapevolezza della necessità-obbligo d’un impegno collettivo per un effettivo esercizio d’autogoverno. Un’autonomia che sarebbe rimasta, in molti se non in tutti i sardi, più come vacua aspirazione che concreta padronanza del potere. Questa discrasia, come taluni sostengono, andrebbe attribuita ad inerzia, impreparazione o diffidenza. L’autonomismo sardo nel corso degli anni si è via via trasformato come un movimento di “ribellione”: contra sos continentales, o contro le ingiustizie e le dimenticanze dei governi e dei parlamenti nazionali e comunitari. Con lo scopo, neppure molto recondito, di poter dare così maggiore valenza al loro richiamo elettorale.

Una distorsione che ha trasformato la conquista autonomistica in un semplice strumento di richiesta, alle centrali governative di Roma o di Bruxelles, di maggiori provvidenze ed attenzioni, o – per altro verso (e mi accorgo qui di far mio un esemplare giudizio di Paolo Dettori) – che ha rafforzato la convinzione che da quell’intermediazione politica tutto ci si dovesse attendere perché a tutto avrebbero dovuto provvedere (dal pane quotidiano al divertimento) lo Stato o l’Unione Europea. Un’autonomia che si è così trasformata da strumento virtuoso d’autogoverno in un banale espediente per poter dare maggiore carica politico-elettorale alle rivendicazioni, più o meno fondate, nei confronti dei poteri esterni. In effetti, un’analisi delle attività messe in atto dalla Giunte e dei Consigli regionali in questi ultimi vent’anni, ci conforta sull’attendibilità di questa tesi. In questi quasi 70 anni di autonomia regionale si è quindi verificato un progressivo indebolimento della governance politica, proprio su quel versante, dei progetti e dei programmi, che dovrebbe essere, invece, pane e companatico d’un autogoverno che si rispetti.

Ma se l’autonomia politica ha mostrato queste gravi défaillances, anche sul piano dell’autonomia economica non si è andati molto meglio. Infatti il tasso di dipendenza dell’Isola si è sempre più aggravato, per via di uno sbilancio divenuto sempre più pesante fra entrate dall’esterno (in forte crescita) ed uscite dall’Isola (in costante diminuzione). Lo si rileva facilmente confrontando il calo sempre più pronunciato che si è verificato, soprattutto nell’ultimo ventennio, nel Pil dei comparti produttivi, dall’industria in senso stretto, all’edilizia, all’agricoltura, ai servizi.

Le cause di questo declino possono essere diverse. Ma una, su tutte, sembra emergere come determinante. Ed è da individuarsi in quell’isolamento, sempre più sofferto, in cui si è venuta a trovare ormai da diversi decenni l’imprenditoria sarda. Rimasta priva anche di quell’importante traino, fatto magari di subappalti o di manutenzioni, ma comunque diffusore di conoscenze e di esperienze, dovuto alle grandi industrie presenti (statali e no).

Vi è infatti da tener presente che esiste, fra gli studiosi delle aree in difficoltà o in ritardo di sviluppo, una teoria detta “succursalista”, che sostiene essere l’esempio proveniente da affermati complessi produttivi come il più importante diffusore di conoscenze e di occasioni industriali. Occorre rifarsi – sostengono – al volo degli stormi delle anatre: che sono guidati dalle anatre più esperte, mentre quelle più giovani lo chiudono, salvo prendere il loro posto, quando si saranno irrobustite.

È un’immagine suggestiva, e anche molto efficace proprio perché richiama quel fattore imitativo che è stato promotore di molte positive esperienze: si pensi a quanto accaduto nelle Marche, grazie ai Della Valle, con i calzaturifici o a Sassuolo con la ceramica. O, per restare anche in casa nostra, quel che sta avvenendo, seppur lentamente e con risultati ancora modesti, nel campo vinicolo sulla scia indicata dalla Sella & Mosca.

Purtroppo qui in Sardegna la crisi petrolifera in primis, ed a seguire lo smobilizzo delle “partecipazioni statali” e della Casmez, con in aggiunta il recente intorbidamento finanziario del Paese, hanno sempre più aggravato l’isolamento tecnico e culturale di gran parte della nostra imprenditoria, impedendo quella progressiva emancipazione che poteva essere resa possibile dall’esempio di “anatre esperte”. Così alle difficoltà d’accedere ad un’efficace cultura industriale, si è cercato di sopperire con il ricorso alla destrezza para-industriale, chiedendo ed acquisendo assistenze e sostegni pubblici: regionali, nazionali, comunitari. Tanto che si è assistito alla comparsa di una new imprenditoria col turbo (spesso avventurosa e furbesca, talvolta anche corsara), assai abile soprattutto nel muoversi fra i complicati labirinti procedurali dei vari POR, PIT, o di qualsivoglia altro acronimo della foresta contributiva pubblica, più che capace ed esperta di management skills o di strategic marketing. Da qui, secondo le statistiche delle Camere di commercio si rileva e si comprende il rapido turnover di centinaia di imprese che nascono e muoiono in rapida successione, lasciando peraltro pochi segni positivi del loro passaggio.

In questo imbastardimento dell’economia e delle sue regole virtuose, la Sardegna è entrata in grave sofferenza. E la sua autonomia appare come una vecchia e malandata auto, destinata ormai allo sfasciacarrozze. Non più utile nel tirar fuori l’isola dalla palude (di inerzie e di pusillanimità) in cui è precipitata. Taluni ritengono che la si debba sostituire decisamente con altri format istituzionali, assai più estremi, come l’indipendenza separatista od il federalismo da e nell’Italia, non tenendo conto che quel che è mancato non deriva da una scarsa efficacia delle regole autonomistiche, ma delle capacità, delle volontà e delle cognizioni necessarie per ben governare l’Isola. Poi si può essere d’accordo che l’autonomia, se rimane legata agli assiomi operativi del 1949, può anche essere inadatta a una Sardegna profondamente cambiata, giacché con un’occupazione che in grande maggioranza è ormai formata da servizi non-market, è divenuta più terra di consumi che di produzioni, causando una forte e crescente dipendenza dalle entrate e dai soccorsi esterni.

Ora, mettendo in fila questo e gli altri profondi cambiamenti sociali e strutturali avvenuti nel settantennio, si può avere una precisa nozione della grande portata delle trasformazioni in atto. A cui occorre far fronte con differenti nozioni culturali e diversi strumenti operativi. Perché di fronte a queste modificate realtà sociali proprio non pare più sufficiente mettere a lucido i vecchi arnesi, rispolverare le vecchie cassette degli attrezzi ed abbandonarsi alle nostalgie d’antan, attualizzando per il nostro caso un pensiero di Norberto Bobbio. Occorrerebbe invece impegnarsi per innovare il proprio armamentario, ricercando, con caparbietà, vie e soluzioni nuove, oppure recuperando, con intelligenza, ciò che di positivo si è dimenticato o si è perduto.

Siamo infatti convinti, arciconvinti, che l’autonomia regionale sarda è un valore sempre attuale, che va difeso e, soprattutto, che non deve essere perduto, trascurato, posto nella soffitta dei ferri vecchi. Essa deve essere riattualizzata e rinvigorita attraverso un impegno diffuso, convinto e solidale, perché (occorre ricordarlo) è una costruzione della ragione e non una condizione naturale delle comunità. Va infatti curata, seguita, corretta ed ossigenata dal loro sapere e dalle loro volontà per divenire strumento efficace di progresso e di sviluppo. Va ancora difesa da quelle minoranze antisistema, spesso anche arroganti e chiassose, che oggi pontificano, cavalcando l’ideologia degli slogan gridati, costruiti più dalla pancia che dalla testa, come si suole dire.

C’è quindi bisogno, urgente bisogno, di una nuova autonomia, di una rinnovata cultura per le politiche autonomistiche, per far sì che le pericolose involuzioni in atto non continuino a determinare il declino, la dipendenza e le sofferenze della nostra Isola. Un’autonomia che va sorretta e gestita da nuove e preparate élite, culturalmente attrezzate per invertire la rotta all’indietro ed annullare i ritardi dei quali abbiamo illustrato un sintetico bilancio. L’obiettivo? Far sì che le diseguaglianze interne ed esterne delle nostre comunità vengano attenuate e anche annullate, dando così al termine “rinascita” il suo vero ed autentico significato “di decisa ripresa, di piena rifioritura” per una terra rimasta desolatamente sterile ed appassita.

Paolo Fadda

Economista, saggista, già dirigente del Banco di Sardegna

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