Referendum costituzionale, un Sì per non dovere (ancora una volta) ricominciare zero

La linea editoriale di Sardinia Post è nota ai suoi lettori fin dalla fondazione della testata, cioè da quattro anni. Siamo un quotidiano di informazione a carattere regionale, facciamo del nostro meglio per dare tutte le notizie, anche le più scomode, e abbiamo come orizzonte di riferimento politico l’area del centrosinistra, il movimento ambientalista, i gruppi e le associazioni che operano nel sociale. Abbiamo dichiarato fin dal principio questo nostro punto di vista perché riteniamo che i lettori debbano sapere qual è lo sguardo di chi li informa.

Siamo perfettamente consapevoli che il nostro lettorato sul referendum costituzionale è diviso. Da settimane ospitiamo tutti gli interventi che ci vengono inviati dai sostenitori del Sì e dai sostenitori del No. L’unica condizione è stata che provenissero da soggetti rappresentativi sul piano politico o autorevoli sul piano accademico. Riteniamo infatti che Sardinia Post debba essere un luogo di incontro e di dibattito aperto a tutte le forze del cambiamento. Fatta questa premessa, credo che sia venuto il momento di esporre alcune riflessioni attorno al referendum e le ragioni per le quali sono arrivato alla conclusione di votare Sì alla riforma costituzionale.

Parto da una premessa “di metodo”. Ogni quesito referendario pone all’elettore due questioni: quella relativa al merito dello stesso quesito, in questo caso il contenuto della riforma costituzionale, e quella relativa alle conseguenze politiche del risultato. La decisione su come votare di solito nasce da una valutazione bilanciata di questi due aspetti. La premessa della mia riflessione è che la questione delle conseguenze politiche è diventata molto più rilevante degli aspetti di merito. Sono giunto a questa conclusione per la stessa ragione esposta con chiarezza da Giuliano Pisapia (ma dallo stesso Gustavo Zagrebelsky, il padre nobile del movimento del No, nel confronto televisivo con Matteo Renzi): “Comunque vada a finire, non è in gioco la democrazia”.

Non è in gioco la democrazia e nemmeno il futuro dell’autonomia speciale della Sardegna. Come – per chi ha tempo e voglia di andare a leggerli – confermano gli interventi che abbiamo pubblicato in queste settimane. Il fatto che tra i sostenitori del No ci sia chi lo motiva con un argomento opposto (la riforma costituzionale metterebbe le autonomie ancora più “fuori controllo”, come ha ribadito l’altro ieri in un confronto a La 7 uno dei più prestigiosi sostenitore del No, l’ex presidente della Corte costituzionale Ugo De Siervo) chiarisce che la questione è quanto meno controversa. E che non sarà l’esito referendario a decidere il futuro delle regioni a statuto speciale. Semmai lo sarà la loro capacità di utilizzare l’autonomia per migliorare le condizioni dei cittadini e non gli emolumenti dei consiglieri regionali. La riforma costituzionale produce una serie di cambiamenti attesi da tempo, lo fa in modo parziale e per alcuni aspetti confuso. Ma certamente non è la via per instaurare in Italia un governo autoritario (come, e questo dovrebbe far riflettere, sostiene Silvio Berlusconi), né per eliminare le autonomia speciali.

La posta in gioco è un’altra. E’ molto più alta e viene prima. Oggi è in discussione l’esistenza dei principi fondamentali che sono alla base dell’Unione europea. E’ in gioco il Trattato di Lisbona e l’idea dell’Europa come “spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, che garantisce la libera circolazione delle persone”. Parallelamente, in Italia è in discussione non la seconda, ma la prima parte della Costituzione, quella del principio di uguaglianza e del diritto d’asilo. Quanto all’area del centrosinistra, è in discussione la possibilità che in Italia esiste una forza progressista inclusiva che tuteli i principi costituzionali e sia in grado di mettere assieme le forze migliori del Paese. Parlo del Partito democratico come lo immaginavano quanti nel 2007, quasi dieci anni fa, si misero in fila per le Primarie che portarono all’elezione di Walter Veltroni.

Non credo che una vittoria del No sarebbe salutata in Europa e nel mondo come una vittoria di Zagrebelky. Sono certo che questo risultato – nelle valutazioni della politica e dei media internazionali – andrebbe a completare la “triplete” della destra populista avviata dalla Brexit e proseguita con la vittoria di Trump. Credo che le forze populiste europee si intesterebbero – con ottimi argomenti – la sconfitta del governo italiano. Il governo che più di tutti sta tenendo il punto sulla difesa dei diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Certo, con scelte a volte discutibili – come l’aver ceduto alle pressioni europee per la chiusura dell’operazione Mare Nostrum – ma anche con decisioni coraggiose e tutt’altro che scontate, come quella di investire dieci milioni di euro per il recupero del relitto della nave affondata il 18 aprile del 2015 a largo della Libia e avviare una gigantesca operazione umanitaria per l’individuazione delle vittime. Una decisione di quelle che, in questa fase, non portano voti e di cui bisognerebbe avere l’onestà di dare atto al governo Renzi. Anche da parte degli oppositori della ex maggioranza del Pd che, quando era al governo, non si è particolarmente distinta su questo fronte. Al punto da bloccare l’iter per l’approvazione di una legge sul diritto d’asilo (che, infatti, non esiste ancora).

L’anno prossimo si vota in Francia. I progressisti europei con tutta probabilità – come ha appena confermato la triste ritirata di Francois Hollande – si troveranno a fare il tifo per un uomo di destra come Francois Fillon nella speranza che argini l’avanzata e la vittoria di Marine Le Pen. E’ singolare che una parte dei progressisti italiani oggi sia accanto a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni in una strenua battaglia contro un governo di centrosinistra. E sarà interessante vedere come, se vincerà il No, Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema spiegheranno all’Europa che, in realtà, ha vinto la sinistra.

E’ molto improbabile che la vittoria del No determini l’avvio, nel Partito democratico, del processo di rinnovamento promesso, e non realizzato, da Matteo Renzi. Il solo risultato sarebbe il ritorno in campo di una parte del vecchio gruppo dirigente, quello che nel 2013 è stato quasi sul punto di riuscire nella difficilissima impresa di perdere le Politiche. Quello che a suo tempo ha attivamente cooperato alla caduta del governo Prodi e che poi ha dato un rilevante contributo alla sua mancata elezione al Quirinale e che, per tornare un momento in Sardegna, è effettivamente identificabile con i “poteri forti”, cioè con chi ha il controllo delle banche.

Non credo nemmeno che la vittoria del No determinerebbe il miracolo della formazione di una forza politica a sinistra del Partito democratico in grado d’essere anche una forza di governo. Del progetto che in quest’area sembrava il più interessante, la “coalizione sociale” di Maurizio Landini, si sono purtroppo perse le tracce. Sel si sta sciogliendo, la nuova formazione Sinistra italiana è un’entità del tutto indefinita. Si assiste – in Sardegna in modo particolare – al riposizionamento tattico di alcune figure di rilievo, impegnate in complesse acrobazie che hanno prodotto, quanto al referendum costituzionale, l’ambiguo mostriciattolo del “né sì, né no”. Non si vede un progetto ma si vedono, con chiarezza, le operazioni di un ceto politico che studia come e dove ricollocarsi.  L’Italia non ha alcun bisogno del Bertinotti 2.0. Ci è bastato l’originale.

Nel caso in cui la notte tra il 4 e il 5 dicembre le previsioni dei sondaggi diffusi prima del divieto di pubblicazione risultassero erronee e ci fosse una vittoria del Sì, non ci sarà alcun motivo per avviare speciali festeggiamenti. C’è anzi da sperare che la maggioranza del Partito democratico – dopo aver tratto un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo – faccia tesoro degli errori commessi in questi mesi. A partire dalla personalizzazione renziana del referendum. E che Matteo Renzi si metta in ascolto di Romano Prodi e metta in atto la “rottamazione” così come l’hanno intesa quanti l’hanno votato alle primarie per la segreteria. Non solo un “taglio generazionale”, ma anche una rottura con le pratiche di un gruppo dirigente che non ha capito nulla di quanto accadeva nel Paese negli ultimi dieci anni: dai girotondi al Movimento 5 stelle. Se questo non avverrà, sarà inevitabile la nascita di un’altra formazione politica a sinistra del Pd. Ma senza l’ingombrante presenza di quanti, dopo aver sostanzialmente impedito la nascita del Partito democratico, oggi sembrano avviati a compiere il miracolo politico di impedire anche la nascita di una sua minoranza interna portatrice di autentiche istanze di rinnovamento.

Quanto alla Sardegna c’è da sperare che emerga una figura, o un nuovo gruppo dirigente, consapevole del fatto che le elezioni regionali sono state vinte per il rotto della cuffia anche grazie a una legge elettorale costruita per eliminare dalla scena politica un movimento, quello di Michela Murgia, che – per le donne e gli uomini che vi hanno aderito – rappresentava una parte rilevante del movimento progressista.

Sono perfettamente consapevole che è un percorso complesso. E che non è affatto detto che si compia. Ma sono altrettanto certo che una vittoria del No lo bloccherebbe definitivamente. E non abbiamo né il tempo, né le risorse, per ricominciare da capo.

Giovanni Maria Bellu

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