La strada giusta contro le droghe non è l’intolleranza, riflettiamo su libertà e consapevolezza

La cronaca drammatica, scandita dal succedersi serrato di episodi tendenzialmente analoghi, costituisce spesso la breccia per rimettere ciclicamente a tema fenomeni sociali più ampi, di tipo strutturale e di impatto generalizzato: è il caso di strettissima attualità di alcune tragiche morti di giovanissimi, in connessione causale con l’assunzione di sostanze stupefacenti.

In questo frangente, a raggiungere i vertici dell’agenda del dibattito pubblico è nuovamente la ricerca – non necessariamente coincidente – di spiegazioni e di soluzioni alla questione problematica del consumo massivo di droghe, soprattutto in fasi biografiche precoci. Un tema indubbiamente controverso, come sempre avviene quando a essere ridiscusso è il fragilissimo confine tra stili comportamentali privati e norme di ordine pubblico, secondo accezioni mobili e diversamente intense di devianza.
I provvedimenti securitari contingenti, probabilmente indotti dalla cifra emergenziale con cui si è teso in questi giorni a rappresentare un fenomeno in realtà ben sedimentato, sistemico e di lunghissima durata, si sono focalizzati in particolare sui contesti spaziali collettivi che hanno fatto da sfondo ai decessi: luoghi pubblici ad esplicita destinazione ricreativa, dei quali si contestano i vincoli e le modalità espressive, fino a deliberarne la chiusura perentoria, a estremo monito per ogni spazio analogo. Se questa può essere rubricata come una presa di posizione a valle, opinabile non tanto nella sua legittimità tecnica quanto nella sua parzialità sostanziale, una disamina più articolata del problema dovrebbe forse tentare di risalire a monte. Dovrebbe interrogarsi sulle possibili strategie ex-ante, preventive, non solo per contrastare gli esiti più estremi dell’assunzione sregolata di droghe su larga scala, ma anche per cercare di fare luce sui percorsi di scelta individuale che conducono un numero decisamente rilevante di persone a tradurre l’azione dell’assunzione una tantum di stupefacenti in comportamento abituale. E – a complicare il tutto – per perseguire l’obiettivo dell’efficacia, questo tentativo interpretativo dovrebbe provare a mantenersi scevro da tautologie, insite nella sanzione assiomatica della ‘Droga’ come presenza estranea ‘inaccettabile e basta’ nel corpo sano della società civile. La dichiarazione di intolleranza assoluta, infatti, non ne esclude comunque l’esistenza e la persistenza, né su un piano logico né tantomeno agli effetti pratici.
Questo tentativo appare, viceversa, percorso con buone intenzioni dai due racconti di vita qui proposti. Due storie apparentemente antinomiche, ancorate ai due poli estremi del rapporto individuale con le droghe: in un caso, un consumo informato, inscritto strategicamente da anni entro una routine di canonica normalità (famiglia, lavoro, amici); nell’altro caso, la rinuncia definitiva ad ogni tipo di stupefacente a seguito di un evento di rottura, l’overdose scampata per un pelo, talmente traumatico da marcare un prima e un dopo nel ciclo di vita del protagonista.

A uno sguardo più avvertito, tuttavia, le due narrazioni risultano piuttosto complementari: entrambe condividono il principio della scelta, della consapevolezza dell’agire, dell’azione assertiva e non semplicemente mimetica che ha condotto ciascuno ad accedere a vari tipi di sostanze, per quanto giovane potesse essere l’età. Nessun rimando di responsabilità ad entità altre: luoghi, retroterra familiari, influenze dei pari. Due riflessioni in qualche misura sui generis, che si discostano dalle pratiche correnti di riduzionismo di colpa ad una generica ‘società in cui viviamo’, tentacolare, irresistibile, padrona. La stessa consapevolezza ribadita ha definito tuttavia due esiti differenti nella costruzione dei processi identitari dei due ragazzi: per Luca, la decisione di informarsi accuratamente su rischi e modalità, e proseguire l’esperienza del consumo come meccanismo funzionale, e non sostituivo, alla pienezza della propria vita, scandagliata in tutte le sue vulnerabilità pregresse e in atto (ad esempio la ricorsività ormai riconosciuta come ‘normale’ degli stati d’ansia o del bisogno di amplificare le reazioni sensoriali ad alcuni stimoli percettivi, come la musica e l’arte – sul solco, peraltro, di una lunga tradizione ben nota alla creatività letteraria); per Marco, la decisione – altrettanto ponderata – di chiudere definitivamente una fase di sperimentazione sfuggita alle proprie capacità di gestione, oltre la soglia di un rischio divenuto pericolo di vita.
Il posizionamento frontale dei due ragazzi, senza ovvie pretese di rappresentatività generazionale, stimola comunque una pista di riflessione non banale, meritevole di essere spesa nel discorso collettivo che in queste settimane fluisce attraverso media e social network: il richiamo alla consapevolezza, dei propri limiti, degli orizzonti temporali su cui investire, dei gradi di libertà catalizzati, oppure al contrario gravemente compromessi dall’introduzione di questo fattore additivo, “stupefacente” appunto, nel proprio corso di vita. In funzione di cosa, allora? Di nuovo, e in ultima analisi, di una profonda consapevolezza di sé e delle conseguenze delle proprie azioni, un terreno sul quale lo strumento dell’informazione capillare di accompagnamento (o prevenzione) di qualsiasi decisione individuale, compresa l’assunzione di sostanze sintetiche, dovrebbe forse avere lo stesso diritto di cittadinanza dello stigma fine a se stesso e non accuratamente argomentato.

Ester Cois

Ricercatrice Università di Cagliari in Sociologia dei processi culturali e comuncativi

 

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