La democrazia partecipata come antidoto ai poteri forti (o quasi)

Il successo editoriale d’un recente libro di Ferruccio De Bortoli dedicato alla presenza di “poteri forti (o quasi)” nel nostro Paese, ripropone un ritornello che, anche qui nell’Isola, viene ripetuto assai spesso, con protagonisti, peraltro, assai differenti. Certamente per dimensioni ed influenze. Quel che rimane invariato, invece, è la destinazione di quei poteri: che è, e rimane, il campo della politica o, meglio, il “Palazzo” dei politici. La loro caratteristica principale parrebbe comunque, per quel che si può notare, l’opacità, cioè si tratta di gruppuscoli che amerebbero operare underground, sottotraccia, al di sotto della visibilità e della trasparenza. Si tratterebbe, quasi sempre, di minicorrenti partitiche, di cordate personali, di presidi localistici od anche clientelari o familistici.

Prendendo spunto da alcune recenti vicende politiche regionali, non si può ignorarne l’esistenza, anche perché sarebbero stati capaci di favorire o di tutelare degli interessi molto particolari, corporativi od addirittura personali, del tutto contrari – ed anche nocivi – a quelli generali della Sardegna. Quel che riesce difficile da individuare è la loro identità, anche perché sono assai variegati e mutevoli. Per cui parlare genericamente di massoneria, parafrasando quel vecchio detto cagliaritano che diceva custus frammassonis si funti pappendi tottu Casteddu (questi massoni si stanno mangiando tutta Cagliari) diventa nient’altro che una semplificazione di comodo. Niente più che uno stereotipo. Non diversamente dal fatto che mezzo secolo fa c’era chi addebitava ad un “cupola” di imprenditori e professionisti, di per sé autorevoli, la gestione oligarchica e strafottente di un potere capace di condizionare le scelte urbanistiche, gli appalti edilizi e l’universo tutto degli affari della città. Non tenendo conto, peraltro, che era allora sufficientemente presente l’antidoto del costume democratico e, soprattutto, l’attenta vigilanza dei diversi partiti.

Ora, secondo una lettura abbastanza condivisa da molti politologi, quei poteri opachi hanno fatto il loro nido dentro le spoglie di quelli che erano i partiti della “prima Regione”: trasferendovi innanzitutto le loro prepotenze e protervie in modo da far divenire “privato” tutto quel che dovrebbe rimanere “pubblico”.

Ma “cosa sono” poi questi poteri? Non sono altro che delle persone fisiche, inserite in movimenti, correnti o gruppi sufficientemente attrezzati per contare e pesare parecchio. In clientele e voti elettorali come nel controllo delle giunte e delle assemblee, non certo nella volontà di esercitare un buon governo per l’Isola. Di loro, peraltro, non è sempre facile individuare l’anagrafe e, quindi, la possibilità di schedarli e di neutralizzarli. Perché l’opacità è il loro habitus abituale ed il sottotraccia il loro ambiente privilegiato. D’altra parte la frantumazione/debilitazione dei partiti politici della “prima Repubblica” (come della “prima Regione”) pare aver favorito, a nostro parere, la costituzione di poteri alternativi/sostitutivi “forti” (o almeno prepotenti), sorti all’ombra delle divisioni correntizie che si sono moltiplicate e personalizzate nei tanti “cerchi magici” formatisi attorno ad alcuni baroni. Riuscire ad individuarli, con nome e cognome, non dovrebbe essere difficile, ma, purtroppo sarà “quell’aria che tira” a renderlo impossibile. Perché – come scrisse anni fa un acuto giornalista – sono un frutto diretto del declino del costume democratico, un vero e proprio virus che si diffonde mano e mano che aumentano il distacco e la disaffezione dell’elettorato dalla società politica. E che ha costituito così la loro ferrea cortina di difesa. Quei poteri hanno acquisito forza e prepotenza profittando della sempre maggiore debolezza delle organizzazioni politiche. Da quelle al governo non differentemente da quelle all’opposizione.

Eppure, proprio in questi ultimi mesi le cronache hanno segnalato, in crescendo, dei casi eclatanti di prepotenza e di strapotere. Si è infatti osservato da più parti come molte scelte, nelle nomine più importanti come negli investimenti più appetibili, abbiano profittato delle sempre più inquietanti smagliature nell’etica democratica per far prevalere logiche ed interessi correntizi, localistici od addirittura personali od affettivi. Aggiungendo spesso dell’arroganza all’abituale loro prepotenza. Così, la deriva (il piano inclinato) in cui sembra scivolare la Sardegna, trova certamente delle ragioni in questo triste declino dell’etica democratica e nel sopravanzare di pericolose logiche di un potere arrogante ed autocratico. Per porre un freno alla discesa occorrerebbe ridare forza e vitalità, con il proprio voto (e non certo con l’astensione), a quell’antidoto di democrazia partecipata che, in passato, riuscì a dare alla Politica (quella con la P maiuscola) il ruolo d’essere al servizio del bene comune e non certo di roccaforte d’un potere “pro domo sua”.

Paolo Fadda

(Economista e saggista, già dirigente del Banco di Sardegna)

 

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