Una nuova imprenditorialità per far risorgere la Sardegna

L’autore di questa analisi è Luca Pirisi, classe 1987, laureato in Economia e Management della Pubblica Amministrazione alla Bocconi. Attualmente è borsista presso il Laboratorio MeS della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Il nodo dello sviluppo socio-economico della Sardegna appare inestricabile. Eppure i nostri territori dispongono di un’enorme possibilità: aumentare l’efficacia degli investimenti europei facendo leva sulla diffusione di una nuova cultura imprenditoriale.  Facile a dirsi ma da dove si parte? Seguendo un approccio logico, il primo passo del ragionamento è la chiara specificazione del concetto di cultura imprenditoriale. Sfruttando le evidenze emerse dall’analisi “La cultura d’impresa in Italia”, condotta da Eurisko nel 2007, essa può essere definita come l’attitudine a “intraprendere, progettare a breve e a lungo, con l’obiettivo di ottenere profitti” attraverso “ricerca, innovazione e formazione permanente delle risorse umane”. In particolare, secondo la concezione di imprenditori, dirigenti e cittadini, una sana cultura d’impresa implica “il superamento dei soli obiettivi di profitto economico del soggetto impresa, per favorire ricadute positive sull’ambiente in cui si opera (il territorio) e sul capitale umano e sociale interno ed esterno all’impresa”. Tale definizione è perfettamente allineata con l’obiettivo europeo di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Ecco che quindi la maturazione imprenditoriale è una leva naturale per valorizzare le opportunità che l’UE ci offre. Il secondo passaggio fondamentale per la nostra riflessione è l’approfondimento sulla condizione della Sardegna nel quadro delle politiche europee. Dal 2007, in seguito all’allargamento dei confini dell’Unione, la media europea di ricchezza pro-capite si è abbassata. La Sardegna si è trovata di colpo con un PIL per abitante superiore alla soglia del 75% del dato continentale. Tale innalzamento ha avuto la conseguenza di far entrare l’isola nella categoria delle Regioni di transazioni, ossia le Regioni che devono puntare verso il traguardo della competitività regionale e dell’occupazione. La Sardegna è quindi progressivamente chiamata a competere nello scenario globale e per farlo la crescita dell’attitudine imprenditoriale isolana appare fondamentale. Chiariti il concetto di cultura d’impresa e la sua centralità nel percorso che la Sardegna deve affrontare, il passo successivo è l’identificazione degli strumenti operativi attraverso cui attivare il circolo virtuoso “più imprenditorialità, più efficaci investimenti pubblici”. Per identificare gli strumenti operativi non è necessario appellarsi alla fantascienza. E’ sufficiente andare oltre le solite considerazioni preconfezionate, sforzandosi di declinare il problema della eccessiva burocratizzazione regionale in termini pratici e gestionali. Così facendo sarà quindi possibile capire perché i 3.948 milioni di Euro, spesi in Sardegna tra il 2000-2006 per finanziare oltre 31.000 progetti, non hanno prodotto evidenti risultati. Allo stesso modo, i sardi potranno prendere coscienza delle lacune gestionali inficianti il programma di sviluppo 2007-2013, finanziato con circa 4 miliardi di Euro, dei quali il 67% destinati a interventi infrastrutturali. Entrando nel merito delle politiche messe in campo dalla Regione nel periodo 2000-2006, particolarmente esemplificativa è la vicenda dei progetti integrati territoriali (PIT). Dopo anni di interventi pilotati dall’alto, tali progetti miravano a stimolare il protagonismo dei territori al fine di promuovere la crescita dei settori chiave delle economie locali (es. filiere agroalimentari, turismo, artigianato, ecc.). Nella pratica però i PIT mancarono l’obiettivo dello sviluppo della Sardegna. Una spiegazione attendibile di tale inefficacia è rinvenibile nell’analisi redatta dalla società pubblica Studiare Sviluppo (pp. 33-38). Tra le diverse criticità, una delle più evidenti fu la frammentarietà del processo di decentramento delle funzioni di governo dalla Regione agli Enti Locali. Incatenata da procedure convulse, la Regione non riuscì a gestire il trasferimento di competenze e responsabilità ai territori. Oltre alla fragilità del decentramento, l’impatto della politica fu minato anche da evidenti errori metodologici: le analisi territoriali risultarono insufficienti; le tempistiche stringenti e soggette a continue proroghe; mancò il coinvolgimento di attori chiave quali banche, università e centri di ricerca; il contributo dei consulenti esterni era inadeguato. Così come per le altre politiche, il risultato di tali interventi fu quindi una distribuzione a pioggia di risorse pubbliche. In continuità con il percorso iniziato con i PIT, durante il ciclo di programmazione 2007-2013 la Regione Sardegna ha avviato i nuovi Progetti di Sviluppo Locale (PSL). Dopo una prima fase di sperimentazione nell’area industriale di Tossilo, tali progetti sono quindi stati avviati nelle restanti aree di crisi dell’isola, quali la Maddalena, il Sulcis-Iglesiente e Porto Torres. La dotazione finanziaria stanziata supera i 200 milioni di Euro. Sulla carta, soprattutto considerando l’esperienza deficitaria dei precedenti progetti integrati, l’amministrazione regionale disponeva delle informazioni e degli strumenti per rilanciare vigorosamente l’economia sarda. Purtroppo però, oltre all’approccio territoriale e partecipato, i PSL hanno ereditato anche le lacune gestionali dei PIT: procedure schizofreniche; tempistiche sbagliate; mancato coinvolgimento di banche e attori del territorio; scarso supporto tecnico. Il risultato di conseguenza non è cambiato. L’analisi retrospettiva appena proposta ha permesso di chiarire alcuni punti sull’azione burocratica regionale. Da una parte esistono dei modelli di politica che rappresentano validi strumenti per valorizzare i finanziamenti europei. Infatti sia i PIT che i PSL, mettendo al centro del processo di sviluppo le specificità locali, offrono una buona base concettuale per promuovere la crescita dell’imprenditorialità sarda. Alla luce di tale potenzialità, questi strumenti rappresenteranno un riferimento anche per la prossima programmazione regionale 2014-2020 (pp. 110-117). Dall’altro lato però la validità degli strumenti è minata dalle carenze manageriali dell’amministrazione regionale, incapace di attivare processi interni di apprendimento e di rafforzare la gestione delle politiche territoriali. In sintesi, alla luce dell’analisi proposta, è quindi possibile rispondere alla nostra domanda iniziale. Il punto di partenza imprescindibile per aumentare l’efficacia degli investimenti europei è rappresentato dalla diffusione di una nuova cultura imprenditoriale soprattutto all’interno della macchina amministrativa regionale. Dal 17 Febbraio il nuovo Presidente della Regione dovrà farsi carico di guidare tale evoluzione amministrativa, nella speranza che l’esperienza accademica e la parentesi assessoriale siano sufficienti per affrontare prontamente questa cruciale sfida.

Luca Pirisi

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