Il “programma” di don Cannavera e le responsabilità della sinistra sarda

La notizia della possibile candidatura di Don Ettore Cannavera alla presidenza della Regione sollecita e merita più di una riflessione, anche se fosse solo un’ipotesi remota. Pone infatti temi importanti, diversi da quelli che riempiono le pagine dei giornali. In questi giorni in cui l’estate, come sempre, è calda e afosa, viene da pensare che nonostante tutto le stagioni continuano ad alternarsi nel solito modo (anche se il caldo sembra non essere mai stato così caldo) e che la vita, tutto sommato, procede normalmente. Anche la politica (quasi tutta) pare rifletta, negli abituali riti elettorali e nella generale assenza di progetti chiari e di preoccupazioni serie, una situazione sociale ed economica quasi normale, con
problemi quasi normali: più o meno quelli che abbiamo sempre avuto.

Per un verso, purtroppo, è proprio così. Abbiamo gli stessi problemi di sempre, perché non sono mai stati affrontati. C’è un’ampia base di persone povere da sempre, nella nostra Isola, una fetta di popolazione che da decenni non è mai scesa al di sotto del 10%: immaginate più o meno 160.000 persone in condizioni di povertà – come una grande città di poveri (con molti bambini) – e si tratta in larga parte delle stesse famiglie, che si riproducono nella povertà, senza che sia mai stata sentita la necessità di adottare una strategia di contrasto alla riproduzione della povertà, insieme ai sussidi per i poveri che sorreggono ma lasciano poveri. C’è chi dice sono medico, mio padre era medico, mio nonno era medico e c’è chi può solo dire sono povero, mio padre era povero, mio nonno era povero.

La mobilità sociale, quel meccanismo alimentato in primo luogo dall’istruzione, che consente agli individui di passare più o meno agevolmente da uno strato sociale ad un altro, di norma superiore, non funziona più come prima: anzi, sembra quasi bloccato. La maggior parte delle persone resta faticosamente nella posizione sociale che occupa dalla nascita, ma molte persone sono precipitate più in basso. Ci sono anche alcuni che hanno fatto strada, che da un genitore operaio o pastore sono arrivati ad una professione di alto profilo e alto reddito. Ma non sono la norma e non sono molti (per certi aspetti non c’è neppure da dolersene), comunque non sono loro che descrivono la Sardegna. Dimostrano però che è possibile distribuire meglio le risorse e le opportunità.

C’è uno zoccolo duro di disoccupazione che non è mai stato intaccato dalle timide (spesso poco convinte) politiche del lavoro regionali: da decenni, tranne che per brevi periodi, le persone in cerca di lavoro non sono mai scese al di sotto di 80.000, ma altre decine di migliaia hanno aspettato o desiderato un lavoro senza riuscire ad averlo. Il lavoro irregolare non è mai stato contrastato, perché dove manca il lavoro si ritiene (a volte, purtroppo, lo pensano anche i sindacati) che non sia il caso di andare troppo per il sottile con i contratti, pretendendo che siano regolari, né con le industrie né con gli alberghi né con i centri commerciali. In questo modo, alla povertà e alla disoccupazione si è aggiunta una occupazione precaria e irregolare, che è diventata normale.

Il livello di istruzione della popolazione non è cresciuto come avrebbe potuto e dovuto, visti i fiumi di denaro pubblico arrivati nell’Isola per decenni, e dispersi in interventi largamente improduttivi e inutili. L’unica ragione per cui oggi la licenza media inferiore è ancora il titolo di studio più diffuso è che nessun politico (o quasi) è davvero convinto che l’istruzione sia un bene e un diritto primario da garantire nel più ampio e qualificato dei modi possibili (senza equità: l’istruzione migliore va garantita in primo luogo a chi è più in difficoltà). Così come nessun politico (o quasi) è davvero convinto che la formazione professionale sia indispensabile per costruire e aggiornare mestieri e competenze, e coltivare una cultura del lavoro moderna (che non ha niente a che vedere con i corsi di cucina creativa per operai in cassa integrazione…).

Per altro verso, i problemi di oggi sono più gravi, perché non essendo stati affrontati con il tempo hanno indebolito la società e in questa lunghissima crisi hanno raggiunto dimensioni drammatiche. I dati del 2012 indicano che la popolazione che vive in famiglie al di sotto della soglia di povertà ammonta a 420.659 persone, che rappresentano più del 25% della popolazione della Sardegna. Le famiglie povere sono 144.573. I giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno solo la licenza media e hanno ormai smesso di studiare sono 31.000, cioè il 25,5% della popolazione di questa fascia di età: indicano ciò che viene chiamato abbandono scolastico, ma è il sistema scolastico ad averli abbandonati.

I disoccupati sono diventati quasi 110.000 ma a loro si aggiungono decine di migliaia di lavoratori in cassa integrazione e mobilità straordinaria e in deroga (circa 30.000) e decine di migliaia di persone che aspirano ad un lavoro (circa 100.000). C’è un universo enorme, per questa Isola poco popolata, che preme per avere un’occupazione, ma nessun politico (o quasi) vuole provare a dire con serietà come si fa a rispondere a questa enorme attesa di lavoro. Tra i candidati alla presidenza della Regione, uno è certamente incapace di rispondere: l’attuale Presidente, Cappellacci. In cinque anni non ha saputo fare nulla per il lavoro. I suoi assessori intercambiabili non hanno saputo erigere alcuna barriera contro la crisi, in nessun settore, e hanno lasciato che ne fossimo travolti.

Nell’intervista al l’Unione Sarda, Don Ettore Cannavera ha indicato con poche parole chiarissime gli obiettivi fondamentali di un buon progetto politico per la Sardegna: lavoro per tutti, istruzione e formazione. Da qui inizia tutto. Che altro? La sinistra, di cui mi sento parte, è chiamata in causa direttamente: ripartire dal lavoro e dagli ultimi deve essere l’obiettivo irrinunciabile da declinare in ogni forma, da tradurre in ogni possibile opportunità di progresso sociale.

Lilli Pruna

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