Fuori dalla crisi con uno “scatto di menti” che rispetti l’uomo e il territorio

C’è qualcuno che ancora oggi, nonostante la letteratura internazionale e i risultati consolidati dall’esperienza, si ostina a proporre ricette o, ancora peggio, a chiedere consigli per ricette vecchie che risolvano i problemi del nostro sistema economico.

Oggi, come ieri, il problema fondamentale è rappresentato dalle esigenze dell’uomo nel suo territorio e nel suo ambiente. In questo vive con i suoi valori e in questo normalmente si deve realizzare. Se non riesce a soddisfare i suoi bisogni e le sue aspirazioni sociali e culturali ciò dipende dall’organizzazione del sistema in cui si trova e questa organizzazione, in gran parte, è modellata dalla classe dirigente.

Negli anni Sessanta e Settanta c’è stato un forte scatto di reni che ha prodotto i due piani di rinascita e una accumulazione del capitale elevatissima determinata dai contributi-trasferimenti di natura pubblica. Il saggio di investimento, indipendentemente dal settore produttivo in cui avveniva, era il più alto fra tutte le regioni italiane. Di quella accumulazione capitalistica, e conseguente tasso di crescita, non è rimasto molto. Sono sopravvissute poche imprese, è aumentato il tasso di disoccupazione, è cresciuto notevolmente il gap socio-economico rispetto all’Italia e, in particolare, rispetto al Nord.

Ciò è avvenuto perché non si è tenuto conto dell’uomo, della sua cultura, del suo ambiente fisico e sociale, per non parlare della politica economica imposta dall’esterno, sollecitata e approvata dalle classi politiche regionali. Il tipo di industrializzazione che si è realizzata ha rotto ogni equilibrio, umano, fisico e morale, ha investito su una cultura totalmente estranea a quella territoriale, a vantaggio del profitto di speculatori e del prestigio momentaneo (molto transeunte) della classe politica esistente. E’ vero che l’industrializzazione è una rottura col passato, ma questa avviene generalmente con le nuove idee, con l’innovazione e con le conoscenze, non necessariamente formali.

Lo scatto di reni è indispensabile ancora oggi, è vero, ma per indicarci una nuova direzione che, soprattutto nell’attuale contesto storico, non può essere avulsa dalla cultura del territorio in cui si vive e dalla volontà di partecipazione della gente. Da questo punto di vista lo chiamerei più uno scatto di teste e di menti.

Lo sviluppo e il progresso vanno perseguiti collettivamente nel rispetto della risorsa umana e con la valorizzazione delle risorse fisiche di cui si è consapevoli. Questo non vuol dire che ci deve essere un’approvazione assembleare, ma che deve esserci una condivisione di fondo che mantenga stabili gli equilibri sociali, in modo particolare, se questi sono caratterizzati da equità. Questa è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché gli obiettivi vadano perseguiti con tenacia da parte di tutti e infine conseguiti dall’intero sistema.

Il compito delle classi dirigenti non è quello di trasporre modelli economici che hanno avuto successo in altri paesi, cioè, di applicare ricette che si adattano ad altri contesti, bensì il compito, difficile e impegnativo, di piantare nuovi semi con l’aiuto di tutti, interpretando le esigenze delle comunità e dei territori. Purtroppo, se non si raccolgono immediatamente i frutti, cioè se non si hanno successi in termini elettorali, è più comodo cambiare impostazione per avere più prestigio personale seppure momentaneo. Invece, deve essere ricordato e ribadito che il raggiungimento degli obiettivi dello sviluppo duraturo richiede tempi medi e talvolta lunghi, oltre che un monitoraggio costante sulle realizzazioni e una continua valutazione sui risultati.

L’esperienza passata ci ha insegnato che le prescrizioni di politica economica possono andare bene solo se sono rispettose delle esigenze sociali e culturali dei territori in cui si interviene. E queste sono normalmente diverse nel tempo e nello spazio. Orbene, cosa è stato fatto dalle vecchie classi dirigenti a questo proposito, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta? Si sono occupati dell’uomo, della sua storia e delle sue risorse? Non voglio attribuire loro demeriti che non hanno, spero solo che abbiano fatto tutto in buona fede, anche se già in quel periodo la letteratura corrente metteva in risalto l’importanza di una moderna e nuova concezione dello sviluppo. In ogni caso, per carità, niente ricette, soprattutto se sono vecchie, che trascurano sempre le varie e differenti condizioni della persona umana e l’identità dei popoli.

Antonio Sassu

(docente di Politica economica europea all’università di Cagliari)

 

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