Carrus (Cgil) sul Piano per il lavoro: “Nessun collateralismo, ma una risposta all’emergenza sociale”

Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato un intervento dell’economista e saggista Paolo Fadda dedicato al Piano per il lavoro della giunta regionale. Interviene ora Michele Carrus, segretario generale della Cgil sarda. Le pagine di Sardinia Post sono aperte a chi voglia ancora intervenire in modo pacato e argomentato, su questo tema cruciale. E, ovviamente, a tutti i soggetti politici e sindacali chiamati in causa.

Leggo che il dottor Paolo Fadda lamenta sul vostro giornale che si discuta poco in Sardegna di obiettivi e strategie di sviluppo economico e sociale, contestando le “infelici e deludenti soluzioni” emerse dal confronto tra la Giunta, accusata di voler soddisfare “certo collateralismo sindacale”, e la Cgil intorno al piano straordinario per l’occupazione da questa proposto, così come nel 1944 il ministro Romita avrebbe ceduto alle pressioni del sindacalista Di Vittorio, acconsentendo ai famigerati “lavori a regia”. Lamenta, altresì, il fallimento dei diversi progetti di sviluppo locale susseguitisi negli ultimi venti anni e la farraginosità delle procedure di gara per l’assegnazione delle opere pubbliche. Benvenute le critiche, credo che Fadda svolga le sue con una frettolosità stonata rispetto alla condizione di emergenza e di vera sofferenza che vivono in Sardegna migliaia di famiglie che lui forse non vede, quelle dei lavoratori che hanno perso il lavoro e non ne trovano un altro, che hanno perso ogni decente forma di solidarietà, surrogata con la vergogna di miseri sussidi dall’acronimo anglofono che non restituiscono loro né pane né dignità, che assistono impotenti alla fuga dei figli in cerca di futuro, ai quali non sanno cosa dire perché non hanno cosa dare.

Forse, per una realtà come la nostra, che ha perso nella crisi più d’un terzo della sua capacità produttiva e oltre un decimo della sua forza lavoro effettiva; che espone un giovane su due alla disoccupazione di lungo corso o all’emigrazione; che si spopola, s’impoverisce e abbandona le sue aree interne; che soffre ancora di arretrate infrastrutture materiali e sociali e subisce un isolamento relazionale, forse non è esagerato il paragone con l’Italia del secondo dopoguerra, distrutte dai bombardamenti le case, i ponti, le strade, i campi abbandonati e le fabbriche chiuse, con milioni di sbandati, reduci dal fronte o dai campi di prigionia, confusi a milioni di civili affamati, tra miseria, disoccupazione e rivolte disperate… Secondo diversi studi – mancando l’Istat che nascerà nel ’51- circa nove milioni di persone ai trovavano allora in questa condizione.

Allora gli alleati alimentarono un First Aid Plan governativo nei territori occupati fatto di varie misure, genericamente definite “pre-ERP”, cioè precedenti al Piano Marshall, con cui ci si riprometteva di portare “dai maccheroni ai macchinari” l’Italia affamata e gli altri Paesi europei sconvolti dal gran conflitto, spendendo centinaia di milioni di Am-lire in opere e cantieri che impegnassero la troppa forza lavoro inoperosa, scongiurando lo spettro della consunzione per inedia degli scampati al fuoco delle armi: nel 1944 non mi risulta che Romita fosse ministro, mentre di Vittorio ricostruiva la Cgil unitaria (il Patto di Roma è di giugno di quell’anno) e il movimento sindacale era impegnato nell’occupazione dei latifondi incolti e nel riavvio delle fabbriche, abbandonate dai padroni e dai manager fuggiti all’estero durante la Liberazione, ovvero nella loro difesa armi in pugno contro i tentativi dei nazifascisti in fuga di distruggerle. Egli seppe inventarsi già allora lo sciopero al rovescio, cioè il lavoro gratuito degli operai e dei contadini, perché seppe anteporre la necessità della ripresa produttiva e della ricostruzione del Paese agli interessi di classe; e lancerà di lì a poco quel Piano del Lavoro da cui presero le mosse la riforma agraria e, per noi sardi, le grandi speranze della Rinascita: un uomo così si rispetta, non lo si cita a sproposito!

Ad ogni buon conto, Paolo Sylos Labini, a quell’epoca fautore della programmazione e dei lavori pubblici in funzione prociclica, raccontò subito (cfr: Atti della Commissione per lo studio dei problemi del lavoro, vol. III, Roma 1946) non solo che molti impresari, anche allora, facevano la cresta sulla spesa, ma che questa era troppo lenta e spesso non abbastanza efficace, poiché tra il ’45 e i primi quattro mesi del ’46, erano stati spesi soltanto 40 miliardi dei 100 stanziati per opere pubbliche, a causa della lentezza delle procedure e della mancanza di coordinamento degli organi amministrativi dello Stato. Per l’appunto, oggi noi, nel rivendicare l’urgenza di un Piano straordinario per l’occupazione, abbiamo indicato, anzitutto, un metodo per il coordinamento degli interventi e per lo snellimento delle procedure, con la creazione di un’Unità di missione presso la Presidenza (la Giunta preferisce una Cabina di regia unitaria) che possa agire anche come principale stazione appaltante; indichiamo obiettivi quantitativi, fonti finanziarie (anzitutto facendo la ricognizione delle risorse non spese e superando le misure rivelatesi inefficaci) e un complesso di strumenti attuativi e di verifica dei risultati.

Certo, vogliamo condizionare la spesa alla massima occupazione, perché di questo si tratta, ma in opere e servizi utili, programmati a livello regionale e assieme agli EE.LL., recuperando e integrando la progettazione esistente, non scavando buche per poi riempirle. Pensiamo a lavori in titolarità e a cantieri di scopo (bonifiche ambientali, viabilità rurale e minore, reti e sistemazioni idrauliche, pulizia discariche abusive, verde pubblico, sottoservizi urbani, manutenzioni e sorveglianza di scuole, musei, biblioteche ed edifici pubblici, valorizzazione Beni culturali e naturalistici, gestione di servizi e iniziative sociali e culturali, ecc.), ma soprattutto al coinvolgimento del sistema delle cooperative e delle piccole e medie imprese, che possono trarne occasione di rilancio duraturo: di qui l’idea di un bando selettivo per costituire apposite loro short list per le diverse linee d’intervento su cui andrebbero a realizzarsi i progetti, incentivando l’occupazione e il reimpiego con misure di politica attiva del lavoro nei diversi bacini territoriali interessati, secondo l’attività svolta dall’Agenzia del Lavoro. E prevediamo, allo scopo, l’adozione di un atto d’indirizzo su appalti e affidamenti che recepisca le innovazioni legislative nelle gare pubbliche e poi nella conduzione delle commesse (fine del massimo ribasso, indici di congruità, clausole sociali, rispetto dei contratti di lavoro e delle norme in materia di sicurezza, trasparenza e legalità), facendo progressi sul piano della civiltà del lavoro. Vedremo poi come la Regione saprà strutturare e migliorare il Piano da noi proposto, che misura la sua efficacia nel breve termine, ma ha senso anche dal punto di vista strutturale.

Noi ci rendiamo conto, infatti, che il nostro ritardo di sviluppo richiede una visione strategica e politiche di lungo periodo. Perciò siamo sostenitori di una programmazione economica e territoriale che migliori i fattori fondamentali, tra i quali, soprattutto nell’avvento della quarta rivoluzione industriale, assume sempre più rilevanza il capitale umano, la conoscenza, il sapere che si trasferisce nelle produzioni e nei modi con cui si realizzano: per questo abbiamo affiancato alla nostra proposta la rivendicazione di molte più risorse per il diritto allo studio, che altrimenti rischia di tornare ad essere un privilegio di rango. Crediamo nello sviluppo dei settori più innovativi e a maggior contenuto tecnologico, dalla chimica verde al biomedicale, dai nuovi materiali ai cicli di riutilizzo, dalla meccanica fine al digitale e alle nuove energie; dall’aerospaziale alla cantieristica, dal turismo alla valorizzazione dei beni culturali e ambientali; dall’agrifood e dal primario no-food integrati dalla trasformazione industriale che ne traina lo sviluppo qualitativo e quantitativo, quel che noi potremmo ben permetterci vista la terra che abbiamo a disposizione.

Crediamo che anche le produzioni più tradizionali leghino le loro maggiori possibilità di tenuta e di rilancio all’innovazione dei prodotti, dei processi e delle policies commerciali, perché ormai i nuovi materiali e la robotica, l’informatica e le lingue della globalizzazione, l’inglese, il cinese…, ti piombano anche se non li cerchi nel cantiere edile, nel laboratorio artigiano, nei campi del contadino, nelle greggi dei pastori o nelle barche dei pescatori, e diventa perciò essenziale investire in formazione manageriale e professionale degli addetti, poiché si stima che scompariranno per inadeguatezza oltre il 20% delle attività oggi esistenti già nei prossimi cinque anni.  E per questo vogliamo che i grandi player presenti, o attirabili, nei nostri presidi industriali realizzino davvero progetti avanzati di sviluppo, a cominciare da Eni, anche perché è la presenza di filiere produttive importanti e moderne che aiuta le start-up innovative a non restare soltanto meteore.

D’altronde, per nessun imprenditore è indifferente sapere in quale stato si trovino le reti, i servizi di trasporto, l’infrastruttura digitale, l’approvvigionamento energetico; quali pacchetti localizzativi di sostegno agli investimenti siano disponibili e quale sia il grado di efficienza della Pubblica Amministrazione, che, attraverso la qualità istituzionale, con i suoi servizi al cittadino e all’impresa resta, forse, il principale motore di crescita, di coesione sociale e di occupazione, diretta e indiretta. Ciò risulta vero soprattutto se guardiamo alla nostra storia, che ci spiega l’assenza di rilevanti processi di accumulazione primitiva e di una borghesia non puramente mercantile in Sardegna, che oggi si traduce in un sistema imprenditoriale debole e largamente assistito dalla spesa pubblica – alimentata principalmente dalle tasse sui redditi da lavoro e sui consumi di massa – quando non esplicitamente parassitario. Perciò credo che neppure il dottor Fadda possa trovare scandalosa, ad esempio, l’idea del professor Paolo Savona, che un paio d’anni fa propose, sulle colonne di un quotidiano sardo, di rivendicare allo Stato e all’Unione Europea il lancio di un immenso cantiere d’investimenti pubblici per superare le strozzature infrastrutturali dell’Isola e per dare una grande opportunità di crescita alle imprese locali e all’occupazione, fermando così la diaspora continua delle forze lavoro sarde e delle loro intelligenze più fresche. Un’idea non dissimile dall’assunto emblematico, di scuola neokeynesiana, del creare lavoro attraverso il lavoro, l’aumento della domanda interna e la redistribuzione della ricchezza, che hanno qualche buon sostenitore in economisti e pensatori come Piketty, Krugman, Stigliz o Paolo Leon, per restare in casa nostra.

Serve una buona programmazione e una politica che ne sia all’altezza; sprechiamo invece tante occasioni, forse le ultime, oramai, se penso all’uso fatto in passato dei fondi strutturali. Qui abbiamo una condizione di vera emergenza che nessuna propaganda né alcun benaltrismo possono occultare, e come tale deve essere, intanto, affrontata: questione di priorità. Ma la domanda che pongo è: oltre ai rimbrotti per le idee altrui, dove sta la proposta del dottor Paolo Fadda? Sarei lieto di conoscerla, insieme alle sue critiche che in parte condivido, se vorrà scendere dalla torre d’avorio in cui sembra essersi assiso e darci qualche lume, da persona esperta e saggia qual è, rimboccandosi così le maniche nel concorso al bene comune.

Michele Carrus
(Segretario generale Cgil Sarda)

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