Ma la Sardegna ha sempre bisogno di una “sua” banca

Ospitiamo un nuovo intervento del collettivo “Amsicora” che si è costituito nei mesi scorsi per supplire alla totale assenza di dibattito sulle vicende della Fondazione e del Banco di Sardegna dando modo a esperti e testimoni di far confluire i loro pareri con la garanzia della riservatezza. Il gruppo di lavoro, com’è ovvio, si scioglierà nello stesso momento in cui su questi temi cruciali per il futuro della Sardegna sarà avviato un confronto pubblico franco e trasparente.

Noi sardi dovremmo denunciare – dal punto di vista politico, s’intende – la Fondazione per come ha gestito i nostri “beni originari” già del Banco di Sardegna e per la perdita di alcuni dei suoi “pezzi” più interessanti: così ci scrive un amico, attento lettore di quanto si va scrivendo sui fatti bancari dell’isola e, come noi, fortemente indignato per la colpevole e complice rassegnazione mostrata dalla classe politica sarda.

Una denuncia “politica” quindi, perché quel che è al fondo di quanto si va sostenendo come Amsicora, non è tanto una serie di fatti che suscitano il dubbio di una sottomissione degli interessi generale di una comunità a favore di quelli di un ristretto clan partitico-clientelare, quanto la definitiva scomparsa dall’economia regionale di una banca con le stesse “affinità culturali” della sua clientela.

Perché è proprio questo il motivo della “crociata” di noi del gruppo “Amsicora” contro la Fondazione per la sua complice acquiescenza nei confronti della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, nel suo spadroneggiare sulla banca dei sardi. Perché oggi il Banco di Sardegna non è più una “vera” banca, avendo perduto, a favore di Modena, ogni autonomia operativa, dalla predisposizione d’un “suo” piano industriale alla scelta dell’alta dirigenza ed alla valutazione ed al controllo degli affidamenti creditizi, essenziali e peculiari compiti di un CdA d’una “vera” banca.

Così oggi la cultura creditizia diffusa dal Banco è quella emiliano-romagnola, mentre per la Sardegna d’oggi sarebbe necessaria una banca che abbia la stessa cultura e parli lo stesso linguaggio delle sue imprese. Si è infatti convinti che senza un istituto di credito che sia ben addentro all’economia dell’Isola, non potrà avere termine quell’astinenza da crescita e sviluppo che va portando l’isola sul baratro della depressione. Perché senza la disponibilità di «linee di credito ‘su misura’ delle imprese, gli investimenti latitano e le produzioni languono», come ammoniva mezzo secolo fa un affermato banchiere.

Proprio questo convincimento ci ha portato a chiamare in causa il presidente della Regione. Il quale, recentemente, avrebbe espresso, seppure in modo indiretto, il parere che per il sistema economico sardo non vi sia convenienza o necessità di una banca avente una linea di direzione e di controllo espressa nella stessa lunghezza d’onda dei suoi clienti. L’affermazione ha suscitato non poca sorpresa, in quanto egli è, per comune giudizio, un economista d’ottimo livello e, accademicamente, molto autorevole. D’altra parte, si è sempre molto discusso se ci debba essere un’interrelazione virtuosa fra sviluppo economico e credito bancario; ed ancora se le banche di credito debbano essere considerate degli agenti indispensabili per lo sviluppo economico.

Come capita fra gli studiosi, le opinioni pur molto variate, hanno trovato un punto d’intesa comune sulla validità del radicamento territoriale, cioè di banche che avessero come mercato di riferimento quello di vicinato per poterne interpretare e seguire, da vicino, le particolari esigenze. Perché, come insegna la geo-economia, c’è mercato e mercato, ed ognuno ha le sue particolarità.

IL SISTEMA SARDO DELLE MICRO-IMPRESE

Ora, per poter dare seguito a quest’osservazione, c’è, preliminarmente, da sottolineare le peculiarità strutturali del sistema imprenditoriale sardo, ben differente da quello continentale, formato per quattro quinti abbondanti da piccole imprese (sotto i dieci addetti), con un’altissima presenza di imprese familiari (max tre addetti), in gran parte caratterizzate da un rapporto squilibrato tra capitale proprio e a debito, e con un approccio all’indebitamento molto fragile ed elementare. C’è quindi da capire se, tuttora, questo mondo di microimprese abbia, o meno, necessità di un banchiere che ne sappia recepire la domanda di credito e ne sappia interpretare correttamente le modalità per una possibile accettazione positiva.

«Occorre affermare, una volta per tutte, che senza un efficiente sistema creditizio ‘local oriented’ non vi può essere né progresso e né crescita nei territori caratterizzati da un sistema di piccole unità produttive di monoazionisti»: è questa l’affermazione che un pool di economisti dell’Università romana “La Sapienza” (certamente anch’essi autorevoli, per quel che consta) ci consegna sull’argomento. Con l’aggiunta di un ulteriore chiarimento: «le banche locali, infatti, rappresentano le istituzioni maggiormente in grado di, e interessate a, valutare le capacità e le prospettive di crescita di queste micro imprese locali, da cui per buona parte dipendono le possibilità di sviluppo delle loro economie. La convinzione, suffragata dall’esperienza sul campo, è che il loro radicamento territoriale e le “affinità culturali” che legano la dirigenza di queste banche all’economia locale, da un lato mitighino i problemi informativi e consentano una migliore selezione ed un miglior controllo della clientela e, dall’altro, ne facilitino le modalità dell’appoggio creditizio proprio per la corretta conoscenza del suo operare».

Ciò significa che un’attenta e valida politica economica, per lo sviluppo e la crescita, dovrebbe poter contare su di una banca che abbia le stesse “affinità culturali” del sistema produttivo che deve servire. La stessa nascita del Banco di Sardegna a metà degli anni ’50 del secolo scorso era stata una conquista dell’autogoverno concesso ai sardi dallo Statuto speciale. Poiché s’era avvertita come indilazionabile ed indispensabile la necessità di disporre di istituzioni creditizie che operassero per il territorio, cioè a favore del suo progresso e non soltanto nel territorio per ampliare i propri affari (la nascita del Banco per il credito ordinario, del CIS per quello agli investimenti e della SFIRS per il credito mobiliare, rispondevano a quell’esigenza).

Le esperienze degli anni ’60, ’70 e ’80, con la lettura dei bilanci bancari, ci confortano in quel che è il nostro giudizio sullo stretto e virtuoso connubio che si venne a formare, grazie alla comune cultura, tra sistema produttivo e banca locale. Infatti, fatto eguale a 100 il totale degli affidamenti creditizi goduti dalle imprese sarde, circa tre quinti erano allora effettuati dal “Sardegna”, mentre circa la metà lo utilizzavano come banchiere “di fiducia”.

Proprio in quegli stessi anni, oltre l’80 per cento delle tesorerie degli enti pubblici, a cominciare da quella dell’Ente Regione, era affidato al Banco, mentre oggi la situazione parrebbe essersi capovolta: cioè s’è purtroppo rotto del tutto il legame esistente tra la società sarda e quella che avrebbe dovuto essere la “sua” banca (tesoriere della Regione Sarda è ora l’Unicredit di Milano).

L’ABDICAZIONE DELLA FONDAZIONE

Quali le ragioni? Il problema sta tutto nella legge Amato-Carli del 1990 sulla privatizzazione degli istituti bancari pubblici. Infatti, nell’agosto del 1992 avverrà la trasformazione del Banco, da Istituto di credito di diritto pubblico in SpA, ed il suo capitale netto, trasformato in azioni, trasferito in proprietà alla neo-costituita Fondazione. Quest’ultima diventerà, quindi, l’azionista unico della società bancaria, con la previsione di dover così favorire, attraverso la cessione di azioni, la costituzione di gruppi bancari di maggiori dimensioni e capacità operative.

Sarà poi questa, per procedere velocemente, la ragione (più o meno resa obbligante dalla Banca d’Italia) che avrebbe portato alla cessione del 51 per cento delle azioni alla banca modenese. Vicenda, questa, che avrebbe ancora bisogno d’essere meglio chiarita. Di fatto, pur ridotta in posizione minoritaria, la Fondazione avrebbe dovuto rimanere “la sentinella-custode” del radicamento territoriale e dell’integrità patrimoniale dell’Istituto di credito diritto pubblico. Ed è proprio su questo ruolo mal esercitato di “guardiania”, che si è appuntato il rilievo critico del nostro amico, avendo sostanzialmente  la Fondazione ceduto pian piano ad ogni pretesa dei soci modenesi. Così il Banco, che nel 1990 era un vero e proprio “gruppo bancario polifunzionale” con 18 importanti partecipazioni, di cui la metà di maggioranza, si sarebbe ridotto al solo esercizio bancario, dopo che le sue interessenze, con le loro plusvalenze, sarebbero andate ad arricchire la banca modenese (la Sardaleasing è l’ultimo dei “ratti” compiuti e accettati).

LA DIFESA DEL CREDITO LOCALE

Ora, un informato “gurù” finanziario lombardo, da noi interpellato su questi argomenti, preliminarmente ha inteso precisare come un’incorporazione del Banco di Sardegna non abbia alcuna convenienza per la Bper. Tant’è – ha aggiunto – che alla prima soffiata apparsa sulla stampa, il suo titolo ha perso parecchio in borsa, e due o tre importanti suoi azionisti si sono rapidamente liberati di quelle azioni, temendo ulteriori ribassi. Tra l’altro è dell’opinione che quei banchieri di Modena stiano pensando più ad acquisire qualcosa sul fronte del nordest del Paese, dove l’economia è molto più fertile di profitti per le banche, e meno “ostica ed arida” di quella sarda.

Ora, chi vorrebbe favorire quell’incorporazione non può che essere, a suo giudizio, l’istituzione sassarese presieduta da Antonello Cabras. Ma lo ritiene un intendimento molto velleitario, perché l’ultimo patto parasociale, come sottoscritto, ha di fatto sterilizzato ogni possibile iniziativa. Inoltre, ha voluto precisare come ulteriore sottolineatura, occorre tener presente che ci sono sul mercato borsistico quei 6 milioni di titoli di risparmio del Banco che potrebbero formare, ragionevolmente, un argine invalicabile all’incorporazione.

A suo giudizio, occorrerebbe che nel CdA della Fondazione, oltre ai distributori di benefici e di favori, si inserissero anche degli esperti di strategie societarie, in modo da poter esercitare il giusto ruolo di rappresentanza e tutela d’un azionista che intenda far valere i suoi diritti.
Si è dell’avviso che agire utilizzando i diritti dell’azionista di una banca comporti doti particolari di competenza, di capacità e di esperienza, qualora se ne voglia difendere il radicamento nell’economia del proprio territorio di riferimento.

Non a caso il caso recentissimo della “Fondazione Monte Paschi di Siena” appare emblematico per come vada strenuamente difeso quel radicamento territoriale e come non debbano essere disperse quelle “affinità culturali” con l’economia locale. Certo, in questa linea di difesa ha molto contato l’esperienza finanziaria del suo presidente, il professor Marcello Clarich, che ha saputo inserire, con grande accortezza, una presenza autorevole e determinante nel CdA della banca, del cui capitale dispone soltanto il 3 per cento!

Perché nel milieu economico di un territorio, la banca locale ne rimane uno dei protagonisti essenziali, soprattutto come dispensatrice di una cultura indirizzata verso la crescita ed il progresso, e – direttamente ed indirettamente – come formatrice di una autoctona classe dirigente, per l’impresa e per la società. Introducendo e sostenendo quest’affermazione, noi di Amsicora ci sentiamo confortati dai giudizi di autorevoli esperti e, non secondariamente, dai riscontri con le stesse vicende storiche dei processi di sviluppo in tante parti del nostro Paese.

Anche la stessa “Carta dell’ACRI”, sottoscritta nel 2012, che dovrebbe dirigere anche l’azione della Fondazione bancaria sarda, lo afferma con decisa ed univoca chiarezza. Leggiamone il punto riguardante proprio il “rapporto” da regolamentare con la propria banca di riferimento: «Nell’ambito delle proprie finalità di sviluppo del territorio, attraverso l’investimento nella società bancaria, nel rispetto della legislazione vigente, le Fondazioni perseguono l’obiettivo di contribuire alla promozione dello sviluppo economico, nella consapevolezza che una istituzione solida e radicata nel territorio costituisca un volano di crescita e di stabilizzazione del sistema finanziario locale. Le Fondazioni non si ingeriscono nella gestione operativa della società bancaria, ma, esercitando tutti i diritti dell’azionista, vigilano affinché la conduzione avvenga nel rispetto dei principi sopra richiamati».

LE RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA

C’è dunque ben indicato (oltre che vincolante) il forte legame che deve crearsi fra Fondazione e Banca, proprio in difesa del ruolo importante che la gestione locale del credito e del risparmio deve continuare a svolgere come agente privilegiato del progresso economico d’un territorio.

Per essere chiari, è proprio questo l’obiettivo “number one” che ci si è proposti, come deciso ed allarmato appello per organizzare la difesa d’un patrimonio (la banca) che è di tutti noi sardi, perché non continui ad essere docile preda e dominio incontrastato di ambizioni e rapine di banche forestiere. Ora, da sardi avveduti possiamo aver qualcosa da ridire e da recriminare su di una Fondazione che continui a operare come si è detto, ma saremmo comunque pronti ad applaudirla se divenisse la rigida sentinella della “sardità” del Banco. Certo, ormai quasi tutti i buoi li si è fatti fuggire dalla stalla, ma allertare la guardia perché quelle fughe non capitino più, può essere occasione possibile oltre che atto necessario.

Infatti, se giuridicamente può trovarsi il modo per rivedere e riscrivere, in modo meno unilaterale e punitivo, quegli accordi capestro imposti dalla Bper, la partita più importante non potrà che giocarsi sul terreno della politica. Perché spetterà al governo regionale (ed in primis al suo presidente) prendere in mano “il pallino” della questione, abbandonando, e smentendo, la sorprendente archiviazione  come “affare fra privati” del rapporto fra Fondazione e Bper (quasi che quei 352 milioni di euro impegnati nel capitale del Banco non fossero un “bene originario” di tutti i sardi: cioè – senz’ombra di dubbio – un bene pubblico).

Sappiamo, con questo nostra discesa in campo, d’avere aperto un fronte difficile, ostico ed anche pericoloso, perché la rete di quanti a vario titolo hanno rapporti con la Fondazione e beneficiano dei suo sostegno è molto vasta, per cui sarà sempre molto facile trovare degli oppositori e dei detrattori.
D’altra parte, la cortina di silenzio eretta da una parte significativa della politica e della comunità isolana – di tanti politici, intellettuali, accademici, imprenditori, giornalisti, ecc. – appare molto indicativa di quanto siano aspri e duri gli ostacoli con cui si è costretti a dovere fare i conti. Ma noi di Amsicora andremo comunque avanti, senza paura e senza riguardi riverenziali, perché ce lo impone il nostro senso di responsabilità verso la Sardegna.

Amsicora

 

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