Paolo Fadda: “Il Piano lavoro da 100 milioni soddisfa soprattutto un certo collateralismo sindacale”

Paolo Fadda, economista, saggista, già dirigente del Banco di Sardegna, ha scritto questa analisi sul  Piano per il lavoro della giunta regionale. La pubblichiamo con l’intento di promuovere un dibattito su questo tema cruciale. Le pagine di Sardinia Post, come sempre, sono aperte a chiunque voglia intervenire in modo pacato e argomentato. E, ovviamente, a tutti i soggetti politici e sindacali chiamati in causa.

C’è un qualcosa qui in Sardegna che preoccupa e che sconcerta, ed è quel che potrà essere il futuro dei nostri figli e nipoti. Perché da qualche anno in qua prevale il disinteresse sempre più crescente e un disimpegno sempre più evidente sul come sconfiggere la crisi immanente e riavviare lo sviluppo economico. Nel senso, chiarisco, che si nota in giro una pericolosa caduta di interessi e di attenzioni verso tutto quel che riguarda sul “come” riprendere il cammino verso un’economia che produca della “vera” ricchezza sociale, cioè più lavoro e più benessere. Non si discute più, né ci si confronta, su come dover ricostruire, dopo tanti crolli, delle nuove forme di equilibrio tra ripresa dell’economia, crescita delle imprese e coesione sociale. Tanto da voler privilegiare, come erronea soluzione di puro comodo, l’incremento, sempre più vistoso e colpevole, dei costi della protezione e dell’assistenza sociale.

Ed è in questa censurabile direzione che parrebbe avviarsi la stessa Giunta regionale degli economisti, se fosse effettivamente vero che il “piano per il lavoro” da 100 milioni di euro, per soddisfare certo collateralismo sindacale, pare debba incentrarsi, come s’è letto, su tre strumenti ritenuti funzionali: destinare un “bonus assunzionale” per i disoccupati; aprire dei cantieri per garantire lavoro e, infine, attivare delle opere di pubblica utilità. Un qualcosa, ricordo, che somiglia troppo ai famosi ed inutili “lavori a regia” che il ministro Romita introdusse nel 1944 su pressione della Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Per chi s’intenda di economia dello sviluppo un peccato che non è certo veniale.

Aggiungo che mi ha molto sorpreso il dover constatare che su questa ipotesi (augurandoci che tale rimanga) non ci sia stata una presa di posizione, od un commento purchessia, da parte di qualcuno, fosse un politico o un esponente dell’imprenditoria o dell’accademia. Quasi che si debba essere tutti d’accordo che sia questa dell’assistenzialismo la soluzione giusta per attenuare le difficoltà del momento. Per essere più chiari, rimango dell’opinione che anche in questo caso (ma non è il solo) si stia prefigurando un’eterogenesi dei fini (voler creare occasioni di lavoro) sovrapponendosi alle modalità necessarie per realizzarli. Perché sono le imprese, e le loro attività produttive, a generare il lavoro, non viceversa.

Certo, non si può pensare, come una sessantina d’anni or sono, che “fare sviluppo” significhi importare solo imprese dall’esterno, attraverso l’incentivazione finanziaria, senza peraltro integrarle con il protagonismo e le capacità dei soggetti locali. Le cause di questo mutamento sono molteplici, e vanno dalla fine del “fordismo” alle profonde trasformazioni intervenute nelle modalità del produrre e nella competitività di mercati divenuti sempre più globali. Il nuovo ciclo dello sviluppo ha quindi assunto come suo aggettivo qualificativo il termine “locale”, con ciò intendendosi un suo più stretto collegamento con i soggetti e le risorse del territorio. Sono quindi i territori, con il loro “capitale sociale” a dover sostenere lo sviluppo.

Qui in Sardegna, peraltro, s’è verificata molta confusione su cosa dovesse intendersi per “sviluppo locale”, caricandola di valenze improprie, pensando che esso debba incentrarsi sul produrre, che so, soprattutto pani carasau o casu axedu, e non cercare di acquisire, invece, le capacità di attrarre dall’esterno sia investimenti che risorse scientifiche o culturali innovative. Per poter arricchire le competenze e le specializzazioni locali.

Le scelte d’indirizzo agli investimenti sono risultate infatti del tutto dispersive e prive di alcun elemento innovativo, limitate per lo più alla creazione di agriturismi o di b&b, o di minilaboratori per pardulas o currugionis. Cioè di occasioni del tutto “paesane”. Perché, occorre chiarirlo, non è pensabile, in tema di sviluppo, ad una sorta di localismo autarchico, in chiusura ed in rifiuto di ogni apporto esterno.
Cioè, per farla breve, si è stati di fronte ad una effettivo fallimento dei vari piani – Pia, Leader, Pit, ecc. – succedutesi ad iniziativa pubblica lungo un ventennio. Un flop senza se e senza ma di sorta.

Eppure ancor oggi non si è aperta alcuna discussione su quali nuovi indirizzi occorre impegnarsi per rendere vincenti e produttivi gli interventi a favore di uno sviluppo locale vincente. Le stesse modalità di accesso ai benefici pubblici per incentivare l’economia, come oggi stabilite attraverso i c.d. “bandi”, con le loro difficoltà criptografiche, paiono insufficienti (o, meglio, inadatte) per essere in linea con le esigenze effettive delle imprese. Occorre modificarle, migliorarle, renderle più semplici in modo da poter stimolare e sostenere le energie imprenditoriali latenti nell’Isola.

Non è per niente facile capire, dagli indirizzi politici come dai giudizi raccolti dai nostri media, quale sia, o quale debba essere, la strada maestra da imboccare: se debba essere quella fra i campi da coltivare o fra le fabbriche da sostenere. Lasciando peraltro che le risorse finanziarie della Regione continuino ad andare verso assistenze e soccorsi vari, cioè in spese di protezione sociale, improduttive per definizione. E questo nel silenzio più assoluto e più colpevole di un ambiente locale sempre più indifferente e distratto. Ora, proprio quest’assenza di dibattito appare ancor più paradossale se si tiene conto delle gravi sofferenze attraversate dall’economia sarda. Tanto da portare a soluzioni come a quelle, assai infelici e deludenti, giunte inopinatamente dal confronto fra la Giunta Pigliaru-Paci e la Cgil di Carrus.

Sono invece convinto – e lo scrivo con particolare sottolineatura – che in Sardegna ci siano competenze, energie e risorse capaci di creare un tessuto di opportunità valide per dare una svolta all’economia locale. Si tratta di snidarle dai loro rifugi e riportarle al centro delle attività capaci di creare sviluppo. Sarà possibile, domando infine, far sì che esse ritornino ad essere al centro dei progetti e delle iniziative perché l’alba del progresso possa riapparire qui in Sardegna?

Paolo Fadda

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