Una crisi grande, una classe dirigente piccola piccola

Le occasioni e le motivazioni che danno tristezza e sconcerto, per noi poveri sardi di questo 2014, per dirla con una frase banale, purtroppo ”non finiscono mai”. All’affaire “Fondazione-Bper” s’è aggiunto ora quanto va accadendo (od è già accaduto) alla Camera di commercio di Cagliari, un’istituzione storica della città, con oltre un secolo e mezzo di vita, travolta da uno squallido tsunami di accuse ed addebiti da liti fra comari.

Ho inteso mettere insieme queste due vicende, pur molto dissimili nella loro patologia, perché ambedue inducono a riflettere sullo “stato” delle nostre classi dirigenti. Non tanto per la (eventuale) grave rilevanza degli errori, delle omissioni o delle disattenzioni imputati o commessi, quanto per avere messo in chiara luce l’impreparazione e la conseguente inadeguatezza delle élite poste alla guida delle nostre istituzioni regionali.

Non è, questo, un problema da nulla, da sottovalutare. Sono infatti “arciconvinto” che l’attuale, profondo e triste declino dell’isola (della sua appannata coscienza autonomistica, delle sue carenze nell’autogovernarsi, delle sue incapacità a disegnarsi un futuro) dipenda soprattutto dal decadimento morfologico delle sue classi dirigenti. E questo non soltanto nella politica, ma anche in altri campi della società attuale, dall’imprenditoria alla cultura, dalle attività artistiche e del tempo libero fin’anche alla Chiesa.

Abbiamo infatti assistito, con rapida successione, all’emergere di figure, tanto mediocri nella preparazione quanto eccellenti nelle scalate al potere, che hanno “occupato” sedie e poltrone, mossi soltanto da bramosie di soddisfazioni personali, e non certo dal dover mettere a disposizione dell’interesse pubblico le proprie esperienze ed i propri saperi.

Mi è difficile fare paragoni con il passato, ma ricordare che importanti realizzazioni cagliaritane come il porto commerciale e l’area industriale nell’anteguerra, o come coraggiose iniziative come la Sardamare, l’Airone ed il porto container nel dopoguerra, ebbero il loro fertile laboratorio nel palazzo camerale del Largo Carlo Felice, non può che stridere con le piccole e sterili liti per le costose infiorate o per i catering a gogò dell’oggi.

È la borghesia d’un tempo che era magari piccola ma pensava in grande, mentre quella d’oggi, magari più numerosa, che pensa e agisce soltanto in piccolo. E in quel “grande” e in quel “piccolo” ci sono due differenti modi d’intendere il ruolo di dover essere classe dirigente: nell’operare perché cresca e si consolidi uno sviluppo pubblico generale e, al contrario, perché crescano ed aumentino i propri personali valori.

Forse, e lo dico qui sottovoce, le Camere di commercio, così come sono oggi strutturate in un’esasperazione corporativa delle loro governance, non paiono più istituzioni utili all’imprenditoria di questi nostri tempi, ridotte, come sono, ad essere niente più che un esoso gabellotto ed un burocratico documentificio per le imprese.

Si è letto, peraltro, che l’attuale governo Renzi – nella sua voglia di riformare il Paese – stia pensando ad una riforma anche del sistema camerale, ed è già, questa, una buona notizia: ma quel che occorrerà rompere (e non sarà facile) è quel vulnus corporativo che ne condiziona e ne sterilizza il ruolo di libera ed autonoma rappresentanza della classe imprenditoriale d’un territorio. In modo da ridare loro la possibilità di esprimerne, come guida, “il meglio”, in indifferenza del settore d’appartenenza.

Non so se queste mie riflessioni possano essere o no condivise, ma senza poter o sapere selezionare ed esprimere una classe dirigente capace, attrezzata culturalmente, efficiente progettualmente ed incensurabile eticamente, a mio parere non si va, in Sardegna, da nessuna parte. Perché, in difetto, non ci resta che lamentarci perché le brutte notizie, dalle nostre parti, non finiscono mai…

Paolo Fadda

 

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