L’INTERVISTA/ Pinna: “Tutti siamo pieni di ‘muri’. Per i sardi c’è soprattutto il mare”

Fulvio, guardando indietro alla tua intesa carriera, cosa pensi ?

Vedo uno che ci ha provato. E mi viene in mente una cosa importante: la possibilità di fare le cose. Se ho un’idea ci studio sopra, esamino i percorsi, e faccio in modo di portarla a termine. Nel 99% dei casi, finora, mi è riuscito. Non tutto, certo. Ma provo a levare il terreno all’improbabilità, o alla paura di non riuscirci. Mi costa energia, ma se fisso un punto lo si vuole davvero raggiungere, allora non ci sono ostacoli. Oggi posso dire a me stesso di non avere rimpianti. Ma mi son guadagnato quello che volevo.

E che cosa resta irrealizzato?

Voglio dare un punto fermo del mio lavoro ogni dieci anni. Se guardo agli anni ’60 vedo gli impegni nell’arte e in politica. Erano anni di rinnovamento. Oggi, per esempio, non posso sentire pronunciare la parola ‘precario’. Siamo tutti precari! E se anche abbiamo un posto fisso a lavoro, spesso siamo ‘inquadrati’ da qualcosa che non ci rappresenta. E non si riesce a mettere sul tavolo le proprie carte. Anche quello, credo che sia precariato. Un precariato psicologico, direi. Oggi mi piacerebbe che i giovani dei nostri paesi non soffrissero la mancanza del contatto con l’arte, così come allora fu per me. Nel tempo ho raccolto opere di artisti internazionali, e mi piacerebbe aprire una piccola Pinacoteca a Furtei. Un Museo rivolto a tutti. Per vedere il mio Cigno qui vengono turisti da diverse parti del mondo. Così mi piacerebbe accadesse anche per questa pinacoteca. È questo il punto irrealizzato, oggi, a cui sto lavorando.

La tua galleria, a Berlino, è la tua casa. Ha un senso particolare questo?

Certo. Tu non sai la gioia di alzarsi la mattina e vedere mio figlio di tre anni giocare con i quadri e le opere che ha intorno. Credo che sia così che si vive l’arte. A Roma, per esempio, i bambini giocano con le sculture, salgono a cavalcioni dei capitelli, o sui leoni di Piazza del Popolo. Questa è arte. Poter toccare con le mani, vederla ogni giorno, e crescerci in mezzo. È per questo che io stesso viaggio. I miei occhi ogni tanto hanno bisogno di accarezzare il Pantheon, la Torre di Pisa, il Bastione di S. Remy. Cagliari, per esempio, è meravigliosa di notte.

Come hai visto la candidatura di Cagliari a Capitale europea della Cultura?

Molto bene. È sempre stata in buona posizione, ma la concorrenza delle altre città era forte. In Italia abbiamo una enorme ricchezza, è difficile scegliere. Sono stato in città da poco e l’ho trovata molto bella. L’eleganza di via Roma: uno dei posti più belli che io conosca. La bellezza del porto, lo stagno con i fenicotteri rosa, le sue oasi naturali e le spiagge. Ad ogni lato ti sposti dalla città trovi il mare che è un paradiso. Questo è unico.

Come trovi, invece, Berlino oggi?

Si sta ammorbidendo rispetto al passato, si sta espandendo, e sta diventando una città occidentale. Ma anche ingolfando. Ha i suoi pregi. I difetti di prima sono diventati i pregi di oggi. La città si è riempita di giovani di tante nazionalità. È l’unica città tedesca non tedesca. Questo ha portato curiosità nelle persone, così come in me prima. Persone che si sono inserite restando loro stessi. Quando portai i miei dipinti, li feci vedere, e vennero apprezzati per quello che erano. Fui spiazzato dalla meritocrazia. È questa una positività della città che le devo riconoscere.

La tua arte è stata definita ‘Pittoscultura’, che cos’è?

È il termine di un grande giornalista sardo, Antonino Sanna. Famoso per le interviste ai potenti dell’economia (lavorava in Rai e nella carta stampata negli anni ’70). Vinsi ad Ostia, nel ’75, un Premio di pittura per giovani, lo conobbi e da allora fece delle bellissime presentazioni scritte per le mie mostre. Inventò questo termine ‘Pittoscultura’. Che in pratica indica la rappresentazione pittorica delle quelle che potrebbero essere mie sculture. Di fatto io sono prima uno scultore che pittore.

Una volta hai detto: «Andavo contro ogni genere di muro come un ariete». Cosa ha significato il Muro di Berlino per te?

Il muro di Berlino in quegli anni era la rappresentazione di ogni ‘muro’ della nostra vita. Credo che tutti siamo pieni di ‘muri’. Alcuni li evitano, altri li negano, ma ci sbattono contro. Altri provano a comprenderli e a scavalcarli. Credo che se non li capisci non riuscirai mai a superarli. Per i sardi – per esempio – un muro è rappresentato dal mare che ci divide dagli altri continenti. Di Berlino mi attirava il simbolo dei muri. Ero uno studente impegnato politicamente, sentii il discorso di Kennedy nel ’63, feci un quadro per Solženicyn, poi fui a Roma con Giovanni Paolo II, e la vicenda di Solidarność. Sono tante tappe che mi hanno segnato. Andai per due volte nell’ottobre dell’87, e rimasi shoccato per come un popolo potesse vivere così. Ho viaggiato in altre capitali europee, ma nessun posto mi ha colpito come Berlino. Era un crogiolo di idee, di passioni, di tristezza, di terrore, si respirava la paura. La toccavo con mano ogni volta che passavo le frontiere. Per una qualsiasi cosa potevi essere bloccato, ed allora erano momenti brutti.

Cosa rappresenta il tuo dipinto nel Muro?

Rappresenta la libertà: è vista come una Sirena che, a Berlino, vola sopra un Inferno dantesco, e passa davanti al palcoscenico della Storia. È una sirena che si porta via i simboli dell’ideologia comunista. Ha il volto di mia moglie. Vi sono rappresentati anche mia figlia, e Lorenzo, l’altro mio figlio, vi è poi una bambina annegata nello Spre (il fiume di Berlino, ndr.). C’è l’omaggio alla cultura italiana, la piazza, una nave romana, la musica. Ho riservato lo spazio alla mia isola, dipingendone la bandiera. Mi accorsi dopo di essere lì l’unico italiano presente nell’opera.

Arte e politica sono dunque stati presenti nella tua vita. È questo secondo te un concetto del passato, o ha ancora senso parlarne?

Io dico sempre che non faccio dei quadri decorativi. Per me arte è una forma di dialogo, un tentativo di aprire le menti. Un modo di stimolare il pensiero. Non mi interessa l’arte figurativa in sé. L’arte deve avere un legame col posto in cui si vive, e credo che debba essere coraggiosa.

Siamo a Furtei, paese spesso al centro della cronaca ambientalista. Pure oggi migliaia di giovani partono dalla Sardegna in cerca di un loro futuro. Tra loro vi sono artisti, intellettuali, operai, gente che qui si è formata. Cosa ne pensi di questo?

Siamo nel posto che da paese dell’Oro è diventato paese dei ‘veleni’. Spero si risolva questo problema. A mio tempo uscii dall’Italia quando lessi un articolo di Enrico Bai, fondatore di una corrente ironica detta ‘patafisica’. Lui diceva: “ragazzi, andate via!”. Allora vivevo a Milano, non avevo bisogno di ‘andare via’. Ma poi il suo consiglio l’ho fatto mio. Credo che al di là dell’arte, per tutti, sia un dovere passare almeno qualche anno all’estero. Credo che serva a lavare i nostri panni. Dobbiamo farlo perché il mondo non è la Sardegna, non è Berlino, non è Milano… Il mondo è un conglomerato di tanti luoghi. Se abbiamo un po’ di tutti questi posti, allora abbiamo la possibilità di diventare più uomini, più efficienti. Possiamo capire meglio il posto dove stiamo. È vero che in Sardegna esiste il lato ‘romantico’ del distacco. Quel legame viscerale che lega gli emigrati con la Sardegna. Anche io lo provo spesso, e ci scrivo poesie. Ma dobbiamo fare questo salto. Ogni nazione offre qualcosa. Credo che bisogni solo cercare di stare nel posto giusto al momento giusto. E per provare a raccogliere le opportunità vanno create. In modo tale da poter mettere a frutto le proprie idee.

Leggi anche: LA STORIA/ Fulvio Pinna, da Furtei a Berlino per “colorare” i resti del Muro

Davide Fara

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