Gabriel Tzeggai, dall’Eritrea a Sassari: “Vi racconto il dolore del mio paese”

Dall’utopia alla disperazione, dalla lotta per l’indipendenza alla lotta per la libertà: il destino del popolo eritreo sembra non conoscere pace. Ieri gli eritrei hanno combattuto contro l’esercito di occupazione etiope, oggi combattono contro il proprio governo opprimente che nega ogni dissenso: all’orizzonte nessun barlume di libertà. E così l’unica via, per molti, è la fuga. Verso l’Europa, magari verso l’Italia, considerata quasi una seconda patria per una nazione che usa l’italiano come seconda lingua e ha conosciuto cultura, architettura, scuole, cinema e arte del bel paese a iniziare dagli anni del colonialismo.

L’Eritrea, piccolo stato multiculturale nella parte orientale del Corno d’Africa con sei milioni e mezzo di abitanti, è uno dei paesi con più profughi al mondo: si calcolano circa cinquemila uscite dai confini ogni mese, e su 181mila migranti arrivati in Italia nel 2016 circa ventimila, l’11% del totale, erano eritrei. Anche la Sardegna fa la sua parte nell’accoglienza di coloro che ogni giorno lasciano il paese e in cerca di protezione: molti sceglieranno di proseguire il viaggio verso il Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia le mete predilette), altri invece cercheranno una nuova vita qui. Tra questi c’è Gabriel Tzeggai, 66 anni, di Asmara: dopo alcuni anni in Italia ha scelto di vivere a Sassari. Oggi lavora al Centro Euromediterraneo sui cambiamenti climatici, istituto che ha sede nella Facoltà di Agraria dell’Università di Sassari, dove si occupa di amministrazione e gestione progetti. Una vita fa era nelle fila dei combattenti per la liberazione dall’invasore etiope, oggi è considerato un ‘traditore’ dal governo del suo paese.

“Il mio paese ha condotto una lunga guerra, iniziata nel 1961 quando l’Eritrea è stata annessa con la forza all’Etiopia e durata trent’anni – ci racconta in un’intervista – Insieme ad altri compagni abbiamo scelto di lottare per il nostro paese con il Flpe, il Fronte di Liberazione Popolare dell’Eritrea, lasciando famiglie, amici, impegni e progetti in città e trasferendoci sulle trincee. Una volta finita la guerra nel 1991 e ottenuta finalmente l’indipendenza dall’Etiopia io e gli altri, tra cui mia moglie che era sul fronte con me, siamo tornati ad Asmara. Molti altri giovani, invece, sono morti in guerra”. Da quel momento e per gli anni successivi, fino al 1997, il paese ha vissuto momenti di grande incertezza: “Gioia per l’indipendenza, voglia di lavorare, confusione e dubbi sul modo di governare. Soprattutto, però, fu un periodo caratterizzato dalla grande speranza per un futuro veramente libero”.

Una speranza minata in poco tempo dalla piega repressiva che ha preso il governo provvisorio: il leader del Flpe Isaias Afewerki è diventato capo dello stato e l’unico partito al potere ha creato un un modello militarizzato e opprimente. Il periodo che doveva essere di transizione non è ancora terminato: Afewerki, 71 anni, è ancora premier e esercita un feroce controllo sulla popolazione. La commissione Onu di indagine sui diritti umani in Eritrea ha denunciato nel 2016 schiavitù, tortura e stupri nei campi di detenzione e addestramento militare voluti dal governo.

“Quella che si vive oggi in Eritrea è una situazione unica. Tutto è sorvegliato dal regime, economia compresa. Anche gli alimenti sono razionati, si può comprare il cibo solo in rivendite stabilite ed entro certi limiti: il pane, ad esempio, non più di due panini a testa al giorno. Non per carenza alimentare ma per volontà di tenere in soggezione le persone”.

C’è poi la questione ben nota del servizio militare obbligatorio dal 1993. “Terminato il penultimo anno delle scuole superiori – ci racconta Gabriel Tzeggai – i ragazzi e le ragazze partono per il campo militare: qui inizieranno l’addestramento e l’ultimo anno di scuola. Il campo più grande è quello di Sawa ma ce ne sono altri. Da questo momento saranno alle dipendenze del Ministero della Difesa a tempo pieno e indeterminato: ci sono persone che sono state arruolate in età giovane nel 1998 e sono ancora nell’esercito, lavorano come soldati o vengono usati in settori diversi, ad esempio nelle opere pubbliche. In cambio ricevono un piccolo sussidio. Un ragazzo che passa venti, trent’anni della sua vita così non ha la possibilità di farsi una famiglia o costruire un futuro. Alcune ragazze escono dal sistema militare se restano incinte ma non possono andare a vivere con i compagni e dunque tornano dai genitori o dai suoceri. Questa situazione crea uno stato di disgregazione sociale dove nessuno è padrone del proprio destino”.

Una situazione complessa, quella eritrea: il regime garantisce sicurezza, rete sanitaria e scolastica e ha bandito, primo tra i paesi africani, pratiche religiose crudeli come l’infibulazione, ma i suoi cittadini non sono liberi. È qui che molti vedono, come unica possibilità di riscatto, la fuga. “Gli eritrei adulti possono muoversi liberamente, i giovani sottoposti alla leva obbligatoria devono invece avere un permesso speciale. Riescono però a fuggire sfruttando i canali illegali. Molti vengono messi in viaggio dagli stessi genitori da piccoli, ecco perché arrivano in Italia e in Europa tanti minori non accompagnati”. Dal confine inizierà per gli Eritrei, in gran parte giovani e giovanissimi, un viaggio drammatico attraverso il continente africano lungo anche un anno. L’approdo nei porti italiani è solo l’ultima tappa del percorso, e neanche quella definitiva, ed è in questo momento che la storia dei giovani eritrei in fuga si intreccia con quella degli italiani chiamati ad accoglierli.

Gabriel Tzeggai ha scelto di raccontare la sua storia personale alla ricerca della libertà perché è la storia di tanti suoi connazionali; oggi collabora attivamente con l’Archivio delle Memorie Migranti (Aam), associazione romana impegnata a documentare e raccontare la migrazione in modo interattivo, e con il progetto Video Partecipativo Sardegna finanziato dalla Regione e realizzato dalla associazione 4Caniperstrada sull’antropologia documentaria che ha coinvolto molti migranti accolti nel territorio sassarese.

Secondo Gabriel Tzeggai in Sardegna non c’è razzismo: a parte qualche sporadico episodio violento il clima è buono e non c’è ostilità nei confronti degli stranieri: attentati come quello del novembre scorso a Buddusò sono casi isolati. Molto lavoro invece deve essere fatto con le nuove generazioni: “Mi capita spesso di andare nelle scuole e incontrare i ragazzi: mi rendo conto che molti non conoscono quello che sta accadendo nel mondo. Con le associazioni AAM e 4Caniperstrada coinvolgiamo proprio i migranti che raccontano in prima persona le loro storie. Vediamo una buona risposta e una grande sensibilità soprattutto dai più piccoli: c’è ancora tanto da fare ma sono sicuro che parlare con le nuove generazioni sia la strada migliore per cambiare le cose. Oggi assistiamo a un enorme movimento di persone non certo perché esistono gli scafisti ma perché c’è una parte del mondo che vive in povertà o privata dei diritti umani mentre l’altra parte, ricca, non vuole vedere. Il mondo occidentale sembra essersi accorto del dramma eritreo solo dopo il terribile naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 dove sono morte 368 persone, in gran parte eritree, ma quella è stata solo una delle tante sciagure a cui siamo purtroppo abituati da tempo. E se non facciamo qualcosa non sarà certo una sciagura isolata”.

Francesca Mulas

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