Militare di leva a Teulada, poi il cancro: “L’inquinamento uccide, cerco la verità”

“Prendevamo tutto senza guanti: bossoli, altri pezzi di armi, porcherie di guerra”. Era il 1998. Paolo Floris – guspinese, classe ’78 – entrò nel poligono di Teulada da militare di leva. Otto anni più tardi, quando da poco ne aveva poco compiuti ventisette, il linfoma di Hodgkin. “Con localizzazioni ossee”, fu la diagnosi. Oggi può dirsi un sopravvissuto, anche se le tracce di quel “cancro bastardo”, come lo chiama lui, sono diventate assegno di invalidità. Un contributo all’italiana, roba da paghetta per adolescenti. Nel mezzo un trapianto per non morire e mai un giorno senza quel dubbio. Senza il pensiero della correlazione tra la malattia e i mesi trascorsi a Teulada da soldato. Nel 2012 l’ex militare ha firmato uno dei venti esposti depositati dagli avvocati Giacomo Doglio e Roberto Peara in Procura di Cagliari. Le indagini si sono chiuse due settimane fa. Il pm Emanuele Secci ha confermato l’inquinamento di Teulada, addirittura con “alterazione irreversibile nella penisola Delta“, quattro chilometri quadrati dove è stata rilevata, tra le altre cose, la presenza di “materiale radioattivo, un pericolo concreto per l’incolumità pubblica“. Eppure lo stesso magistrato inquirente ha chiesto di non procedere contro i cinque capi di Stato maggiore responsabili del poligono. L’accusa è per tutti di omicidio colposo, lesioni gravi e disastro ambientale (nel 2012 si chiamava ancora innomninato). Ma siccome “le esercitazioni sono un dovere professionale”, ha scritto il Pm, per nessuno deve esserci processo. Gli avvocati Peara e Doglio hanno presentato opposizione. Deciderà il Gip, nei prossimi mesi.

Cosa pensa più spesso?

Che voglio sapere la verità.

Quale verità?

Non tutte le persone che si ammalano di tumore al sistema linfatico hanno fatto il militare a Teulada. Ma non può essere solo una coincidenza che ci siano tanti casi tra chi ha lavorato nel poligono. Quanti dobbiamo essere perché il numero sia considerato valido ai fini del processo?

Quando ha scoperto di avere il linfoma?

Era gennaio del 2006. Stavo male da un anno.

Male come?

Dolori alla schiena, sempre più forti. Fu infatti un ortopedico a prescrivermi le analisi. Così ho scoperto di avere il linfoma di Hodgkin.

Oltre ai dolori alla schiena?

Ricordo che avevo i linfonodi del collo infiammati. Sembravano palline. Prima nella parte sinistra. Poi anche a destra, sotto l’orecchio. E anche lì sentivo dolore. Il medico di famiglia pensava che avessi la mononucleosi.

Dove stava abitando allora?

Io sono di Guspini, ho sempre vissuto qui. Tranne il periodo della leva. Durante quell’anno in cui stavo male avevo sempre anche una febbricola e di notte sudavo moltissimo. Bagnavo il letto. Quando ho scoperto di essere malato, il linfoma era già al quarto stadio.

Dove è stato ricoverato?

Al Businco di Cagliari.

All’ospedale lo sapevano che ha fatto il militare a Teulada?

Inizialmente no. Eppure il primo professore col quale ero in cura mi disse che la patogenesi della malattia, visto lo stadio in cui era arrivata, doveva essere cominciata otto anni prima. Quindi nel 1998, proprio quando ho fatto il militare a Teulada. In seguito a quell’osservazione del medico, a me e soprattutto a mio padre cominciò a sorgere il dubbio del legame tra tumore e servizio di leva.

Quanti mesi ha trascorso al Businco?

Troppi. Lì ho fatto anche l’autotrapianto e incontrato pure ex commilitoni, malati come me. O militari di professione.

Quanti ne ha trovati?

Diversi. Almeno sei.

Tutti col linfoma di Hodgkin?

O linfoma o leucemia.

Come è stato curato?

Prima con un tipo di chemio che si chiama Abvd. Ma non era bastato: il male tornò. Fu solo la prima recidiva, ne ho avute tre in tutto. Quindi mi sottoposero a quella che viene definita terapia di salvataggio: è una chemio ancora più forte. Dopo di che ho fatto l’autotrapianto, ma mi sono ammalato di nuovo. Sono così passato a una chemio ancora più potente: tanto che dovevo farne sei cicli, invece i medici hanno deciso di non andare oltre il terzo. Il mio corpo non reggeva più. Mi è stata prescritta anche la radioterapia.

Cosa vorrebbe succedesse?

Ripeto: vorrei che qualcuno dicesse quali danni può provocare l’inquinamento a Teulada. Non è nemmeno possibile che non ci siano responsabili.

Lei cosa faceva nel poligono durante i mesi della leva?

Di tutto.

Tipo?

Il primo periodo stavo nel magazzino di reggimento. Ci consegnavano le tute da riparare. A nostra volta, le portavano a due sarte di Sant’Anna Arresi, due sorelle. Oppure davamo noi le tute nuove. Lo stesso succedeva con gli anfibi.

Dopo il magazzino?

Qualsiasi altra cosa, dipendeva dagli ordini. È capitato molte volte che ci mandassero a pulire l’area delle esercitazioni.

Cosa raccoglievate?

Tutto quello che si trova per terra: bossoli, porcherie di guerra, roba vecchia di anni.

Vi davano i guanti?

Ma quando mai. Facevamo tutto con le mani nude.

Mascherine di protezione per naso e bocca?

Quelle le avevano i soldati americani. Noi no. Noi solo la mimetica. Il lavoro veniva svolto senza alcun equipaggiamento.

Cos’altro vi facevano fare?

A volte ci mandavano a spegnere gli incendi delle esercitazioni.

Grandi incendi?

Dipendeva: grandi e piccoli.

Eravate attrezzati per fare i pompieri?

No.

Fumo inalato?

Sempre.

Altri compiti?

Capitava di dover controllare le pecore che entravano nel poligono: quando eravamo di guardia, dormivamo all’aperto dentro un sacco a pelo.

È mai stato nella Penisola Delta?

Sì.

Cosa ricorda?

Lì facevamo le esercitazioni.

Ha paura?

Ne ho avuto e continuo ad averne. Non solo per me, ma per tutti i sardi.

Li vede preoccupati?

Non abbastanza. Non è ancora diffusa la consapevolezza sui danni che procurano i poligoni.

Pensa mai al suo passato?

La mia vita è stata un inferno. La malattia è proprio bastarda. Tre recidive vogliono dire sofferenze atroci. Una volta all’anno faccio i controlli. Proprio in seguito alla chemio mi sono venute altre complicanze, che non sto qui a dire.

Li sente i commilitoni che come lei sono ammalati?

Alcuni sono morti. Ma con gli altri ci chiamiamo di rado, come per scacciare il problema. Deciderà un giudice sul nostro destino. Uno per tutti noi. Se vogliono sentirci, io sono qui.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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