Murales, la mostra di Crisa a Cagliari: “Ecco la poesia del paesaggio urbano”

Nello studio a un certo punto sono sistemate delle travi orizzontali di legno intervallate da porta e finestra. Sembrano il muro di un luogo abbandonato, pieno di sporcizia e macchie di bomboletta. Sopra sono state scritte una serie di parole che a volte non si leggono bene perché sono sovrapposte le une alle altre, come se fossero state dipinte in tempi diversi. “Quelle parole sono come un rumore di fondo e si riferiscono a qualcosa che mi ha colpito anche a livello inconscio”, spiega Crisa, al secolo Federico Carta, artista cagliaritano. “Ad esempio ci sono riferimenti al mare e alle navi, nel duplice significato di possibilità di incontro e speranza ma anche di pericolo, come per i migranti che viaggiano per raggiungere l’Europa. Altri alla natura e alla sua forza immensa. Li ho ricopiati da libri che ho letto e che mi hanno spinto a riflettere”. Questo muro di legno è una installazione, una sorta di divertissement, che gioca sulla doppia natura dell’artista: nato e cresciuto per strada, dalle “tag” adolescenziali alle opere della maturità, e poi approdato nelle gallerie e nelle istituzioni dell’arte contemporanea senza mai rinunciare ai muri e alle facciate degli edifici. Questa ambivalenza è uno dei significati di Esterno/Interno, la prima personale di Crisa a Cagliari da quattro anni a questa parte. La mostra, a cura di Marco Peri e ospitata dallo Studio Li-Xi di via Negri (inaugurazione venerdì 14 alle 19), raccoglie una serie di lavori realizzati nell’ultimo anno circa. “Sono stato fuori per un po’ di tempo e avevo bisogno di tornare a casa e fare il punto della situazione”, spiega. “Mettere insieme tutte le visioni raccolte nei viaggi che ho fatto, riflettere un pochino, stare in ascolto e prendere il tempo necessario per l’esposizione. La mostra è il risultato di questo periodo”.

L’ultima personale di Crisa a Cagliari risale al 2014, a “Puente de raíces”, con la testimonianza dei lavori realizzati in giro per il Messico e il Chiapas. Anche gli ultimi “pezzi” risentono dei viaggi di Crisa, del suo confronto con culture diverse e in particolare modo della sua relazione col paesaggio: dalle periferie urbane all’incontro con la natura. Nel periodo bolognese, ad esempio, Crisa ha passato molto tempo a Staveco, una ex area militare dove per anni si sono aggiustati i carri armati. Uno spazio enorme e silenzioso pieno di magazzini, padiglioni, depositi, officine, cunicoli: tutto abbandonato. “In posti come questi si intuisce la forza della natura, che è imponente e interagisce con l’urbano”, racconta Crisa. “Sono affascinato dalla decadenza, che in realtà non è nemmeno tale: è vita. Una radice che esce fuori da un muro di cemento armato che altro è se non vita?”. Dopo Bologna ci sono state altre tappe: il “caos totale marsigliese” alla ricerca di “una seconda Cagliari” nel rapporto col mare, col porto e con le salite e le discese che gli ricordavano quelle di Castello. Poi Lisbona, con la sua “luce potentissima”. Il Brasile, dove ha dipinto nelle immense periferie urbane di Rio de Janeiro, e di nuovo la Francia, a Parigi. E ancora: Atene, Napoli, diverse tappe nel nord Italia.

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La nuova mostra mette un punto a questo lungo periodo e lo racconta. Ecco un altro significato di Esterno/Interno, quello più importante: il modo in cui paesaggio, ambiente e tessuto urbano influenzano il mondo interiore dell’artista e come tutto questo viene rielaborato e riportato fuori nei suoi lavori. L’esperienza si traduce in una serie di motivi ricorrenti, intrecci di simboli in cui tutto è vivo, tutto è connesso. Nelle sue opere si riconoscono i tubi pluviali, da cui passa l’acqua piovana e che per Crisa rappresentano un “canale di scambio, da cui passa l’energia”. Ci sono le città, vedute di palazzi che richiamano grandi metropoli, e poi le antenne, un altro simbolo importante: “Le antenne ci connettono col divino”, dice. “Non credo nel dio canonico ma ho una visione molto spirituale della vita. Credo che siamo tutti collegati. È un concetto legato alla religiosità orientale”. Gli occhi rappresentano la vita: nelle sue opere le stesse case o i tubi pluviali a volte hanno un occhio aperto, segno che “tutto è animato, tutto è vivo”. E ancora i fili, che rappresentano legami e connessioni tra persone e tra mondi. I lavori sono realizzati su un fondo di bitume, l’asfalto liquido usato per isolare i tetti delle case. “Asfalto le tele”, spiega, “e le mischio col caffè per renderle materiche. Quando si asciugano inizio a lavorare sugli strati e passo al colore. Ma al posto di dipingere le linee uso un raschietto e vado per sottrazione. Come se incidessi”. E i nuovi pezzi in mostra sono molto istintivi: “Rappresento i paesaggi con un segno molto spontaneo –  spiega – con delle linee che seguono un ritmo, disegnati come seguendo uno spartito musicale”.

Andrea Tramonte

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