La storia dell’ergastolano diventato amico del giudice che lo condannò

Arriva in Sardegna la compagnia Tedacà con ‘Fine pena ora’, spettacolo tratto dalla storia, vera e autobiografica, descritta nel libro omonimo (Sellerio, 2015) di Elvio Fassone, giudice ed ex componente del Csm (Consiglio superiore della magistratura). La regia è di Simone Schinocca. Lo spettacolo va in scena domani, 15 settembre, a Genoni, paese del Sud Sardegna, nell’ex Convento dei Frati Minori Osservanti (inizio alle 19).

Il libro di Fassone racconta la sua amicizia con l’ergastolano Salvatore. Le vicende iniziano nel 1985 a Torino, dove si celebra un maxi processo alla mafia che dura quasi due anni. Salvatore, nonostante la giovane età (allora era ventenne), risulta essere una figura di spicco della criminalità e per questo viene condannato al massimo della pena proprio da Fassone. Tra i due nasce una lunga corrispondenza epistolare. Il giudice, che era il presidente Corte d’Assise di Torino, permette al giovane processato di andare a trovare la madre, gravemente malata. Quel piccolo gesto di empatia porta queste due vite a un dialogo che si approfondisce dopo la condanna, grazie alle lettere.

”’Fine pena ora’” – racconta Schinocca – è un testo che parla di mondi diversi, opposti, che trovano un punto di incontro: parla di possibilità, di libertà, di mare, amore, solitudine, smarrimento, muri e che, a tratti, possiede anche fili di ironia. Si fa portavoce di una domanda forte: se oggi ha ancora senso, per una società che si appella del titolo di civile, parlare di ergastolo”.

Nella messa in scena di Schinocca, il pubblico viene proiettato nella cella di Salvatore (interpretato da Salvatore D’Onofrio), ormai cinquantacinquenne che ha già scontato oltre trent’anni della sua pena, che sente di non riuscire più a sostenere una vita in carcere senza possibilità di uscita. Il suo sonno è tormentato dagli incubi, sono i demoni di un uomo condannato all’ergastolo, nella cui scheda, di fianco al suo nome, compare la scritta “fine pena: mai”.

Nella cella di Salvatore compare anche la figura di Rosi, la sua giovane fidanzata, conosciuta durante l’adolescenza. La donna gli rimane accanto per vent’anni. Lo segue nei suoi trasferimenti in giro per l’Italia, dedica a quell’uomo tutta la sua giovinezza, fino alle soglie dei quarant’anni, quando sente l’esigenza di ricostruirsi una vita. Nella dimensione onirica della messa in scena, la ragazza da voce ai ricordi più ingenui di Salvatore, ma è anche il suo spirito guida, l’istinto che cerca di calmarlo nelle condizioni di maggiore sconforto, anche solo grazie al pensiero di poter vedere, una volta ogni tanto, una donna su cui riversare l’amore. Questa relazione, insieme all’inaspettata amicizia con il presidente, hanno permesso a Salvatore di sopravvivere all’ergastolo, difatti in scena tocca a Rosi il compito di sciogliere i nodi della gabbia di corde che intrappolano il protagonista, rappresentazione di un percorso di redenzione che non giustifica le colpe di un condannato, ma che potrebbe rendere possibile una nuova prospettiva di vita.

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