Cinema, il Vangelo femminista di Paolo Zucca: “La mia Maria ribelle in una Sardegna biblica”

di Andrea Tramonte

Maria ripete i nomi di città lontane a voce alta per memorizzarli e immaginare un altrove che le è precluso. Sogna libertà, autodeterminazione e conoscenza, l’emancipazione dalle regole rigidissime che stanno alla base della vita a Nazareth: la cultura patriarcale domina il suo villaggio e le attribuisce un ruolo dal quale non può discostarsi. Non sa leggere e scrivere perché l’istruzione non è concessa alle donne, che devono rimanere a casa e sposarsi. Ma lei non si sente tagliata per quell’identità che la società le ha cucito addosso: è irrequieta, curiosa, ribelle.

La Maria raccontata dal regista oristanese Paolo Zucca – classe 1972 – è una ragazza contemporanea, attualissima. Riluttante anche nel dover interpretare il ruolo di madre del figlio di Dio, che non ha scelto: era in procinto di partire in sella al suo asino Logos per scoprire il mondo e quella maternità improvvisa, non cercata e non accettata, in fondo sarà l’ennesima imposizione che dovrà subire la ragazza. Perché quello che conta non è il destino individuale – le spiega l’arcangelo Gabriele – ma il disegno che Dio ha scritto per lei. 

Il Vangelo secondo Maria – ispirato all’omonimo romanzo di Barbara Alberti del 1979 – è il terzo film del regista cagliaritano, dopo L’arbitro e L’uomo che comprò la luna. Esce domani al cinema: un film Sky original, prodotto da La Luna, Indigo film e Vision distribution, in collaborazione con Paradis films e il supporto di Regione e Sardegna film commission. Se i primi due lavori erano in qualche modo intrecciati – nel giocare sui temi della sardità con registri diversi, nelle dinamiche padre-figlio, nei riferimenti estetici a Wes Anderson – la nuova opera segna uno scarto rispetto al passato anche se con alcuni link tematici e narrativi abbastanza espliciti. Zucca ha creato un film visivamente impeccabile con una storia che parla alle coscienze di oggi ed è anche, inevitabilmente, politica: con una Maria protofemminista e una critica esplicita verso il patriarcato. Ma il film non è solo questo. È anche una storia d’amore, quella tra Maria (interpretata da Benedetta Porcaroli) e Giuseppe (Alessandro Gassman). Ed è un racconto con uno sfondo che non è solo ‘cornice’ o feticcio identitario: la Sardegna, il suo paesaggio di vegetazione brulla e pietre, di tracce archeologiche e chiese paleocristiane. Un contesto che è profondamente intrecciato alla narrazione di Zucca.

Come nasce l’idea di trarre un film dal romanzo di Alberti? Al di là della vostra collaborazione che ormai va avanti da anni. 

Questo sarebbe dovuto essere il mio primo film e nasce espressamente dalla Sardegna. Una quindicina di anni fa ho fatto un corto, L’arbitro, con cui avevo vinto il David e che poi è diventato film. Grazie a Filippo Martinez sono entrato in contatto con Barbara. Nell’opera ci vide facce lapidarie, di pietra, panorami selvaggi e ci trovò qualcosa che aveva a che fare con la Bibbia. Mi disse: perché non leggi il romanzo? Ci siamo incontrati a Roma e rimasi un po’ spaventato dal finale nel quale Maria decide di abortire. Non mi sentivo pronto per una provocazione di questo tipo, anche se ero un disperato giovane regista che voleva fare il suo primo film. Il libro l’ho letto in poche ore e quando l’ho finito mi sono messo a gridare. Mi ha folgorato: ho visto il film, ci ho visto la Sardegna. Così le ho detto: anche se ci scomunicano proviamoci, facciamolo. Ma i tempi non erano ancora maturi e non ci siamo riusciti. Durante il Covid, mentre lavoravo ad altro, mi è tornato in mentre il progetto e le ho proposto di riprovarci. Sky ha detto subito di sì. E il finale brusco non c’è.

Così il finale – senza volerlo anticipare – risulta più delicato, poetico e aperto.

Sì. Abbiamo deciso insieme a lei che il finale originale sarebbe stata una bastonata: al di là dell’eventuale offesa per i credenti sarebbe stata proprio una mazzata drammaturgica e avrebbe pure dovuto separare i personaggi di Maria e Giuseppe. Tanto che quando qualcuno, a un certo punto, ha vagheggiato di tornare alla versione originale ci siamo opposti entrambi. 

Critiche preventive ci sono state lo stesso, alcune uscite su quotidiani di posizioni, diciamo, “non progressiste”. 

Hai detto bene: preventive. Tutto è nato dal titolo che aveva fatto l’Ansa, tipo “Madonna selvaggia e femminista”. A noi piaceva e lo abbiamo anche usato nel trailer però la parola “femminista” ha creato una polemica prima ancora dell’uscita del film: come se fosse un termine denigratorio. Femminismo vuol dire lotta e impegno e volontà di fare in modo che uomini e donne abbiano pari diritti e opportunità. Cosa c’è di sbagliato?

In fondo quello di Maria è un personaggio “letterario” e voi ne avete dato una interpretazione vostra. 

Una scuola salesiana che insegna mariologia mi ha scritto una mail dicendo che l’operazione che abbiamo fatto è lecita e non è blasfema, perché nel corso dei secoli tanti hanno attribuito a Maria pensieri e domande diverse a seconda del periodo storico e delle contingenze. È giusto che voi apriate la figura di Maria a delle domande contemporanee, mi hanno scritto. Ero contentissimo che il messaggio arrivasse da una suora. Vorrei farlo capire a tutti quelli che si sono offesi preventivamente, a chi ha scritto “eh ma nel Vangelo Maria era una donna obbediente”. Ma la sua figura appartiene a tutti, non solo ai credenti. Volevamo attribuirle delle doti e delle istanze che fanno parte del nostro sguardo contemporaneo. E penso che sia una operazione più che lecita. Nessuno vuole riscrivere il vangelo, la nostra è una ipotesi letteraria.

In effetti Maria nel film – al di là della collocazione storica e ‘spaziale’ – si comporta come una ragazza di oggi, attualissima. Per fare una battuta: le manca solo il cellulare. 

Da un certo punto di vista è come dici tu. Non abbiamo mai preteso di assumere lo sguardo di una persona vissuta duemila anni fa, che avrebbe avuto un altro tipo di psicologia. Però ho cercato di evitare che le persone pensassero questo: ho cercato di far recitare tutti in modo molto asciutto, evitando gesti e movenze troppo attuali, o anche l’accento romano.

Come è nata la scelta dei protagonisti? 

Gassman era una mia fissazione e pensavo a lui già dai tempi dell’Arbitro. Ha una fisicità che mi piace molto e ho pensato immediatamente a lui: un gigante che è ‘vecchio’ ma non così vecchio da non essere “coricabile”, come direbbe Geppi Cucciari. Volevo lui e basta. Gli ho mandato il copione e ha risposto subito sì. Porcaroli è stata una proposta dei produttori, non avevo visto serie o film dove aveva recitato e ho recuperato tutto eccetto Baby perché non ho Netflix. Mi sono reso conto che è molto brava. Benedetta è una ragazza di 25 anni che scenicamente potrebbe averne 16 ma con una esperienza sul set di 10 anni. Oltre al talento è una professionista che sa come muoversi nel set e anticipa i problemi che si possono presentare: ha un cervello velocissimo e dà una grande mano sul set. 

Nel film c’è molta Sardegna. Anche il dialogo di alcune lavandaie in sardo, che nel contesto di Nazareth ha un effetto – sicuramente voluto – un po’ straniante. 

Il film nasce dalla Sardegna e con la mia personale Sardegna. Non quella realistica, ma il mito della Sardegna. In generale ho scelto certe location non solo perché evocative del mondo antico – un po’ come Matera per Pasolini – ma anche perché accompagnano lo stato evolutivo psicologico e morale della protagonista. Il film si apre a Tamuli, in un posto inospitale, roccioso. Maria viene chiusa in una torre dal padre orco. Spesso c’erano nebbia e fango. Ben rappresentava quel tipo di cultura retrograda, quel soffocamento che vive la protagonista all’inizio del suo percorso. Quando arriva nella domu de Janas trova quasi un albergo a cinque stelle, con un cambiamento radicale di luogo e stato d’animo. Altri luoghi sono stati scelti per la loro forza simbolica. L’arcangelo, rappresentante del patriarcato più prepotente, viene affrontato da Maria in un duello quasi western davanti a un menhir, simbolicamente un fallo di pietra alto sei metri. Sono regali che la Sardegna può farti. La lingua invece evoca un mondo agropastorale antico che difficilmente avrei potuto raccontare in altro modo. E poi certo, lì si vede il mio gusto per la commedia.

Questo suo aspetto è meno presente rispetto ai suoi altri lavori ma ogni tanto fa capolino, come nella scena delle ali dell’angelo. 

Ecco, quella dello scutullamento – non saprei come altro chiamarlo – delle ali è stato oggetto di riflessioni infinite. La scena suscitava riso e non pensavo dovesse far ridere. Il caso interviene nelle scelte anche nelle scene più filosofiche. Mentre anni fa scrivevo la scena entrò in cortile un corvo altissimo, gigantesco. Mi avvicinai per farlo andare via e questo corvo, per reazione, fece lo stesso movimento con le ali. Mi spaventai da morire. Ho inserito questo dettaglio nella scena ma avrebbe dovuto impaurire la protagonista. Mi sono chiesto: che faccio? La taglio o la tengo nel montaggio? So che alla fine fa sorridere e mi sta bene. Mi piace essere considerato un regista che riesce ad alleggerire e anche a far ridere. 

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