Cinema, I giganti di Bonifacio Angius: “Racconto un lockdown emotivo, tra western e ironia”

di Andrea Tramonte

Il nome non va preso alla lettera. I “giganti” di Bonifacio Angius sono persone piccole, schiacciate da disillusione, senso di colpa, disperazione, meschinità. Sono quattro uomini che si ritrovano insieme dopo un lungo periodo di distanza – il lockdown, mai citato ma quasi sovrastante sul piano emotivo – in un casolare immerso nel nulla della provincia di Sassari. Per due giorni bevono alcol e assumono ogni tipo di droga: speed, crack, cocaina, eroina, tra carta stagnola, righe di polvere bianca, cucchiai riscaldati e fumo. Sono marginali che cercano di riempire il vuoto esistenziale, di addomesticare le loro debolezze e fragilità, di tirare avanti senza sapere bene come fare. Uno di loro, Massimo, è un cadavere ambulante schiacciato dai ricordi di un amore finito male. Stefano è quasi catatonico: ha smesso di parlare una volta appurato di aver detto di voler fare tante cose nella vita che poi non ha mai fatto. Andrea alterna spacconate a momenti acuti di nevrosi. Piero è un personaggio torbido immischiato in modo non precisato nella politica. Insieme a loro il fratello di Piero, Riccardo, il più giovane del gruppo, che inizialmente rimane in silenzio, in disparte, e pian piano inizierà a emergere con un ruolo di contrappunto emotivo, destabilizzante. La casa è spesso in penombra e da lì usciranno solo una volta, per osservare la Cometa del cigno che quella notte – dice Stefanino – sarebbe dovuta andare a morire nel sole. 

I giganti è il terzo film del regista sassarese Bonifacio Angius, classe 1982, ed è un’opera che colpisce per varie ragioni: il registro stilistico estremamente controllato e preciso dell’autore, in grado di assemblare generi diversi che vanno dalla commedia al western fino all’horror; la capacità del film di far ridere e insieme lasciare sbigottiti, di alternare violenza e tenerezza, pensieri terribili e nonsense della droga, guasconate e miserie, riuscendo a stimolare nello spettatore una forma di empatia e di partecipazione verso i personaggi, a farsi carico delle loro difficoltà. Tutto si regge (bene) essenzialmente su dialoghi, sguardi, presenza scenica, una colonna sonora bellissima e una fotografia super. Fa pensare a La grande abbuffata di Ferreri, quel film straordinario dove un gruppo di amici – interpretati da Mastroianni, Tognazzi, Noiret, Piccoli – si chiude in una casa per autodistruggersi mangiando fino alla morte. Il film è interpretato dallo stesso Angius insieme a Stefano Deffenu, Michele Manca e Stefano Manca (Pino e gli Anticorpi, entrambi al loro primo ruolo drammatico), Riccardo Bombagi

Lei ha dichiarato di aver scritto questo film durante la pandemia, che ha vissuto in modo particolarmente negativo. 

Sono convinto che noi stessimo già vivendo una catastrofe antropologica anche nel periodo pre-Covid. Il virus ha semplicemente amplificato tutto. Una catastrofe annunciata, come se fosse la fine del mondo. Ho vissuto quella fase come se in un certo senso si fosse trovata la scusa per privare i cittadini e l’umanità di diritti inalienabili. Poi sono tornato poi sui miei passi, ho cercato di razionalizzare e sono rientrato nei ranghi. Ma all’inizio ho vissuto una crisi depressiva molto forte. 

Quindi come si lega il suo lavoro alla difficoltà di quel periodo?

Avevo questo soggetto già nel cassetto. Il mondo dello spettacolo era estremamente in crisi e io non volevo darmi per vinto. Così ho ripreso quell’idea, che era facilmente realizzabile anche sotto pandemia. Siamo partiti come fulmini e abbiamo scritto in tre settimane la sceneggiatura: dopo un mese stavamo già girando. Il lavoro è stato come un lampo, ero quasi in trance. Però faccio molta fatica a esprimerlo con le parole. Questo film è estremamente cinematografico. E mi inorgoglisce. Per gli altri film riuscivo a parlare delle motivazioni dei personaggi, a entrare nel merito: qui faccio molta difficoltà. Vuol dire che questo racconto poteva essere messo in scena solo col cinema, nella sua purezza. 

I giganti racconta un gruppo di persone in difficoltà, che si autodistruggono. 

Non volevo fare un film noioso sul male di vivere. Quindi ho usato l’escamotage dei generi. Il western, con i dialoghi che finiscono a pistolettate. L’horror, se pensi anche al finale con i suoi rimandi quasi lynchani. L’autodistruzione non è solo dei personaggi, ma è dell’umanità intera. Cosa c’è di più autodistruttivo dell’umanità stessa? Comunque sono persone che hanno una grande consapevolezza di aver perduto e di non poter più recuperare. Il personaggio di Massimo, che narrativamente ha più peso, parte già come un cadavere che cammina.

Nel film spicca l’assenza – voluta – delle donne.

Nei Giganti c’è un attacco frontale, violento al maschio, alla mascolinità e al maschilismo. Il maschio viene mostrato in tutta la sua fragilità, perché nel mondo contemporaneo sta perdendo e quando si perde si ricorre alla violenza, si ricorre a mezzucci, a slealtà, a vigliaccheria. Mi sono attribuito il personaggio più vigliacco, che si piange addosso, che sta sempre a lamentarsi a dare le colpe agli altri. Il maschio italiano è in forte crisi.

A un certo punto fanno il loro ingresso due ragazze ma poi vengono cacciate proprio dal suo personaggio, che dice: non volevo donne con noi.

Lui ha paura delle donne. Ripeto: il mio film è una critica al maschilismo. Mi fanno ridere quelli che invece hanno capito il contrario, come se nell’opera ci fosse misoginia. Invece la donna non solo è centrale ma è tutto. La sua mancanza – e la mancanza d’amore -, la mancanza di figure come la madre, la sorella, l’amica, genera il casus belli. La donna è la cosa più meravigliosa che esiste e quando manca lo si sente. Se non ci fosse stato il problema della mancanza femminile questo film non sarebbe nato. Per citare un gigante, Piero Ciampi: la tua assenza è un assedio. Parlava di una donna. 

Nonostante la tensione, la disperazione dei personaggi, il film riesce a reggersi su registri diversi, non necessariamente cupi.

Usiamo l’ironia, il ritmo, una certa verve. Poi c’è tutto il lato artistico, il perfezionismo del lavoro, i dettagli. Abbiamo usato lenti anni Sessanta che venivano impiegate negli spaghetti western, che danno una pasta cromatica da 35 millimetri. Abbiamo preso una casa nelle campagne di Thiesi che era completamente spoglia – c’era solo la scala – e una nobildonna del paese ci ha aiutato a riarredarla: l’abbiamo ricostruita come se fosse teatro di posa. Tutto questo mi ha dato la possibilità di avere un controllo sullo sguardo pressoché totale. Controllo anche della luce, dall’idea alla tela, ho lavorato quasi come se stessi dipingendo.

Poi c’è la musica, con quei vecchi vinili che vengono suonati durante tutta la durata del film, canzoni italiane abbastanza retro. 

La colonna sonora è stata pensata come se avessimo voluto proporre vecchi brani anni 40, 50 60, ripercorrendo le vie del bolero, del latinoamericano, del chachacha, della rumba, riscrivendo le canzoni da zero con quello stile insieme a Luigi Frassetto. Abbiamo “fregato” il pubblico, che pensa che siano davvero canzoni d’epoca, che vengono dalla collezione di vinili dei genitori e dei nonni di Stefanino. 

A un certo punto il personaggio di Piero, in uno dei suoi deliri, fa riferimento al legame con la terra e all’identità della Sardegna.

È uno sberleffo. Quando hanno scoperto i Giganti di Mont’e Prama i sardi si sono inorgogliti, hanno pensato: ecco, siamo discendenti di grandi guerrieri. Ma siamo anche quelli che in Europa hanno preso più sberle di tutti. Se siamo così forti, se siamo dei guerrieri, perché non combattiamo ora? Perché ci facciamo fregare? Contesto il finto orgoglio che perde di vista le cose che contano davvero. Prendo in giro questo umore un po’ folcloristico che ci fa dimenticare che abbiamo una presenza enorme di servitù militari nel nostro territorio. Poi ho voluto giocare col delirio del ragazzo, usando il sarcasmo, la tragedia e l’ironia. Quando abbiamo girato questo film ci siamo sentiti degli equilibristi: dovevamo camminare sul filo della tragedia, del sarcasmo, del ridicolo senza cadere nella comicità involontaria. Un equilibrio molto difficile, ma che per fare un buon film devi cercare. 

Ne I giganti si occupa della regia, del montaggio, della fotografia, e interpreta un ruolo da coprotagonista. 

È stato molto complicato ma alla fine penso sia stata la scelta migliore. Desideravo avere il controllo di tutto. Quando ho visto che questo personaggio prendeva le mie sembianze a livello di temperamento, di modo di porsi, ho pensato di doverlo interpretare io, che comunque vengo dalla recitazione. 

Il ragazzo invece durante il film cresce in maniera notevole, assumendo un ruolo decisivo che all’inizio non ti aspetteresti. 

È una finta scenica. Come nel calcio, fai intendere di andare a sinistra e poi scatti sulla destra. Ho cercato di far pensare che il giovane potesse portare i “vecchi” alla redenzione, poi anche lui scivola nella dannazione. All’inizio mi fa una ramanzina, poi mi perdona e si fa impietosire dalla mia meschinità: ma poi finisce all’inferno più degli altri. La metafora di quello che potrebbe succedere se continuiamo a impoverire culturalmente i nostri giovani. Potrebbero diventare più mostruosi di noi.

Il riferimento al western invece? L’espediente di un ritrovo in un ambiente chiuso di diversi personaggi che interagiscono in vari modi si trova ad esempio anche in The hateful eight di Tarantino. 

Il western è nel temperamento, nel dialogo, è leoniano, è più sudato. Quel film che citi è secondo me il peggiore di Tarantino. Anche lui si ispira a Sergio Leone ma secondo me in modo più superficiale, caciarone. Io ho cercato di riportare la profondità del regista italiano, che non era solo piani sulle pistole, sugli occhi e colonna sonora invadente. 

Il film è nella lista delle opere italiane in lizza per l’Oscar. Una bella soddisfazione no?

Anche il mio precedente lavoro, Ovunque proteggimi, è stato vicino all’Oscar ma i miei produttori di allora non avevano voluto spingerlo. Naturalmente è stata una gioia rientrare nella lista dei 18 film italiani. Ma è solo una pre-selezione ed è ancora tutto molto rarefatto: ci sono sicuramente registi che hanno più potenza di fuoco di me per ambire all’Oscar. Però a me non piace cantarmela e suonarmela. Ho visto scrittori entrare nella trentina dello Strega che sembrava quasi che l’avessero vinto. Mi facevano un po’ ridere.

Durante il lockdown avrebbe dovuto lavorare a un altro film, che ha abbandonato per le restrizioni della pandemia. Ce ne parla?

Un film a cui sto tuttora lavorando. Un’epopea familiare che parte dagli anni 40 e arriva ai giorni nostri. Una sorta di gangster movie ambientato in Sardegna, la storia di una famiglia nella quale il protagonista dopo un lungo coma scopre di essere stato tradito dai fratelli, dalla moglie, dal padre e come un cane schiumante di rabbia deciderà di vendicarsi. Ma con grande dolore, perché sono le persone che ha amato tutta la vita. E sarà un film dove ci sarà un cast d’eccezione. Si tratta di un film molto costoso e quindi devo scendere a compromessi e usare attori di alto rango. Abbiamo già il protagonista, un attore molto famoso, ma non posso ancora dire niente. Il film bolle e iniziano a prudermi le mani. Non appena finirà il tour dovremmo buttarci su questo, che è molto più complesso. Speriamo sia anche più bello. Penso che I giganti sia il mio film migliore, ma spero di superarmi.

Diventa anche tu sostenitore di SardiniaPost.it

Care lettrici e cari lettori,
Sardinia Post è sempre stato un giornale gratuito. E lo sarà anche in futuro. Non smetteremo di raccontare quello che gli altri non dicono e non scrivono. E lo faremo sempre sette giorni su sette, nella maniera più accurata possibile. Oggi più che mai il vostro supporto è prezioso per garantire un giornalismo di qualità, di inchiesta e di denuncia. Un giornalismo libero da censure.

Per ricevere gli aggiornamenti di Sardiniapost nella tua casella di posta inserisci la tua e-mail nel box qui sotto:

Related Posts
Total
0
Share