“Padre Padrone”, 40 anni fa il grande trionfo al Festival di Cannes

Come presidente della giuria Rossellini si impuntò, nonostante avesse praticamente quasi tutti contro. Fu un braccio di ferro estenuante, tant’è che sono in molti a pensare che lo stress accumulato in quelle giornate lo debilitò così tanto da accelerare la sua morte, avvenuta appena tre settimane dopo dal suo rientro dal festival di Cannes. La trentesima edizione della kermesse decretò, infatti, con gran stupore della stampa, la vittoria di ‘Padre padrone’ dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, i quali ricevettero la Palma d’oro come miglior film e il premio Fipresci della critica il 27 maggio di quarant’anni fa. Un trionfo tutt’altro che scontato visto che in quella edizione, memorabile per qualità, erano altri i nomi dati per possibili vincitori: ‘Tre donne’ di Robert Altman, ‘I cacciatori’ di Theo Angelopoulos, ‘La merlettaia’ di Claude Goretta, ‘L’amico americano’ di Wim Wenders. L’Italia, oltre ai due fratelli toscani, aveva in gara altre due opere straordinarie: ‘Un borghese piccolo piccolo’ di Mario Monicelli e ‘Una giornata particolare’ di Ettore Scola. Ma per il regista di ‘Roma città aperta’ non c’era gara; ‘Padre padrone’ rispondeva alla perfezione alla sua idea di cinema per via del suo realismo molto marcato, in alcune scene al limite della crudezza, alternato ad una lirica riflessione incentrata sul rapporto generazionale tra un padre e un figlio.

Le riprese. Concepito inizialmente per la televisione, tanto da essere girato in 16 mm, fu poi “gonfiato” a 35 per distribuirlo nelle sale e fu girato per la maggior parte nelle campagne di Cargeghe, un paese alle porte di Sassari. All’origine del progetto non c’era il romanzo omonimo di Gavino Ledda, bensì un articolo di giornale che raccontava la sua storia da pastore a glottologo, tanto che i Taviani lavorarono al film ben prima che uscisse il libro. Per il cast, pensarono inizialmente di far interpretare il ruolo del padre di Gavino a Gian Maria Volontè, il quale inizialmente accettò la parte, per poi defilarsi a pochi giorni dall’inizio delle riprese, così entrò in scena Omero Antonutti che fino ad allora aveva fatto esclusivamente teatro. Stesso background aveva l’attore scelto per il ruolo di Gavino da adulto, Saverio Marconi, che per calarsi nella parte visse per una settimana con i pastori e ricorse all’aiuto di alcuni attori di Sassari per parlare sardo in maniera credibile. In una piccola parte appare anche Nanni Moretti nel ruolo di Cesare, un commilitone che durante il servizio militare aiuta Gavino a farsi una cultura.

 

Le polemiche. “Il nostro è un film sulla terra, che è il nostro elemento ricorrente, da ‘Un uomo da bruciare’ fino ad ‘Allonsanfàn’. Storia e natura, individuo e collettività, sono i conflitti portanti della nostra opera che abbiamo ritrovato in ‘Padre padrone’. Così i due registi risposero alla domanda su cosa li avesse spinti a realizzare una pellicola di questo genere. Perché per loro la vicenda umana di Gavino andava oltre i meri confini di una regione per trasformarsi in qualcosa di universale all’interno di una riflessione, tipica del cinema degli anni Settanta, in cui era al centro l’uomo, la sua solitudine e la ribellione ad un sistema. Ma questa visione all’epoca fu capita da pochi, soprattutto in Sardegna. Al netto, infatti, di recensioni molto positive da parte anche di critici influenti come Janet Maslin del ‘New York Times’,  Pauline Kael del “The New Yorker” o di riviste prestigiose come ‘Variety’, in Sardegna il film fu accolto da un vespaio di polemiche alle quali però i Taviani preferirono con molto tatto di non ribattere. Il clima in quei mesi del 1977 fu rovente e il dibattito sull’opera divise gli intellettuali dell’isola; da un lato ci fu chi lo apprezzò come Manlio Brigaglia e Giulio Angioni, dall’altro chi al contrario lo detestò  come Michelangelo Pira, Bachisio Bandinu e Francesco Masala che lo accusarono di dare una “visione distorta della Sardegna”. Diversamente dalle invettive che avevano fino ad allora accompagnato l’uscita di film sardi, colpevoli di rappresentare, con banditi e pistole, un mondo geograficamente ai margini,  per ‘Padre padrone’ a infastidire era la visione della civiltà pastorale vista in antitesi con la modernità, come una sorta di “non civiltà”. Rilievi questi, che già erano stati mossi all’uscita del libro e che il film aveva in qualche maniera rinvigorito.

 

Il boom al botteghino. Nelle settimane successive le critiche aumentarono di pari passo con gli incassi: solo in Italia si piazzò tra i venti film più visti dell’anno e si calcola che nel mondo furono circa un miliardo gli spettatori che lo andarono a vedere dopo la vittoria a sorpresa nella Croisette.  In Sardegna venne guardato da 150 mila persone racimolando milioni su milioni: 64 milioni a Cagliari; 17 milioni a Sassari; 7 milioni a Nuoro; 8 milioni a Oristano; 4 milioni ad Alghero; 2 milioni a Tempio e Macomer; 800 mila lire a Thiesi.

 

La rivalutazione. Ci vollero anni per far sì che ‘Padre padrone’ venisse finalmente visto senza pregiudizi e strumentalizzazioni. Non fu semplice, come racconta Omero Antonutti che chiamato più volte in Sardegna per parlare del film fu sempre inondato di fischi ed insulti e ricevette una critica al vetriolo anche dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga che, durante una proiezione in Quirinale, gelò l’attore dicendogli che il film non solo non gli era piaciuto ma anche che “i sardi i panni sporchi preferiscono lavarli in famiglia. E sono anche permalosi”. Poi la svolta, nei primi anni Duemila, quando Antonutti partecipa ad una tavola rotonda sul film e viene accolto da applausi fragorosi: “Ho notato con gioia che il pubblico, composto in prevalenza da giovani, – aveva detto all’epoca in una intervista – ha compreso perfettamente il senso della pellicola. Meraviglioso, certo, ma ce n’è voluto di tempo”. E per chiudere il cerchio arriva ora anche un documentario ‘Dalla quercia alla palma. I quarant’anni di Padre padrone’ di Sergio Naitza, prodotto dalla Karel Video con la collaborazione della Rai e il patrocinio della Cineteca sarda, che ripercorre, attraverso i ricordi, le tappe di chi visse il set di questo film indelebile.

 

Francesco Bellu

 

 

 

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