Stato Migrante: al Ghetto la fotografia di testimonianza di Roberto Pili

Mi piace la fotografia che racconta i fatti mostrando sempre il suo punto di vista. Quella che fa una gran fatica a sopravvivere, soppiantata dall’informazione omologata che, sui giornali di tutto il mondo, pubblica la stessa notizia usando sempre le stesse due o tre immagini fornite dalle solite due o tre agenzie.

Mi piace la fotografia di reportage che profuma di Leica e di pellicola Kodak Tri-X 400. Quella che non cerca il capolavoro ad ogni scatto, che racconta storie vere e non storielle che puzzano di storytelling zeppe di scene finte, autocertificate dall’autore come ricostruzioni rispettose del vero.

Mi piace la fotografia testimone (felice definizione dell’amico Michele Smargiassi) che, pur filtrata dalla sensibilità del fotografo, non cerca effetti a buon mercato ma prova a spiegare il significato della parola “dovere di cronaca”.

Mi piace la fotografia che non ha il complesso d’inferiorità rispetto alla parola, che racconta da sé senza bisogno di tante spiegazioni, che rivendica orgogliosamente la sua autonomia di linguaggio.

Non mi piace la fotografia che parla di storie disperate senza rispetto per chi le vive, avendo in mente solo il “risultato finale”.

Non mi piace la fotografia di cronaca che giustifica ogni manipolazione col fatto che comunque la fotografia mente per natura e allora tanto vale….

Ho visto la mostra Stato Migrante che Roberto Pili, giovane fotografo e video maker cagliaritano, presenta al Centro d’Arte e Cultura Il Ghetto, curata da Giacomo Pisano e visitabile sino al 12 marzo insieme alla video mostra ‘Diversamente Migranti’, ideata da Giacomo Pisano in collaborazione con Chourmo e Marina Cafè Noir.

Mi piace perché affronta con onestà e coraggio un tema scivoloso come lo sbarco dei migranti in Sardegna senza mai perdere il filo del racconto. Perché non ha l’ossessione  dell’attimo fuggente. Perché non cerca in ogni scatto un quadro di Caravaggio o la foto/icona universale del dolore.

Mi piace perché è la fotografia di chi c’era, che racconta la quotidianità di popoli in fuga standoci “dentro”, che parla di storie comuni, di burocratiche “procedure di identificazione” cogliendone con attenzione anche le sfumature di premura e di solidarietà.

Mi piace perché non strizza l’occhio all’estetica omologante dei grandi contest internazionali tipo World Press Photo o Sony Awards e perché parla un linguaggio fotografico diretto, semplice ed immediato.

In un precedente post (cliccare qui) ho apprezzato le fotografie di Michelangelo Sardo a Parigi, in una mostra che si interroga sugli stessi temi usando il linguaggio dell’arte. Lui racconta con le armi della metafora una storia di migrazioni antiche, ormai sedimentate, come archetipo rassicurante per una società disorientata, facendoci riflettere sul fatto che siamo stati (e forse potremmo essere di nuovo) tutti migranti.

Roberto Pili racconta, con gli strumenti del reportage, la stessa realtà incandescente, che avviene ogni giorno sotto i nostri occhi. Esercizio di accoglienza quotidiana e campo di battaglia per becere operazioni di disinformazione sguaiata, laboratori dove si costruiscono consensi politici e muri (ideologici e fisici) e dove si distillano pozioni d’odio e di razzismo per avvelenare una società già gravemente intossicata. Dove tanti dimenticano che siamo stati (e forse potremmo essere di nuovo) tutti migranti e in troppi sembrano avere sempre tutte le soluzioni in tasca.

Ecco perché c’è bisogno di fotografia che faccia riflettere, che ponga domande senza la presunzione di avere sempre le risposte.

Enrico Pinna

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