Le proposte indecenti dello “stagismo di Stato”

Come è noto, qualche giorno fa il MiBACT (ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo) ha pubblicato il bando “500 giovani per la cultura”, previsto dal decreto-legge 8 agosto 2013 n. 91 – chiamato “Valore cultura” – convertito con modificazioni dalla Legge 7 ottobre 2013, n. 112.

Si tratta di un “programma straordinario finalizzato alla prosecuzione e allo sviluppo delle attività di inventariazione, catalogazione e digitalizzazione del patrimonio culturale, anche al fine di incrementare e facilitare l’accesso e la fruizione da parte del pubblico.” A ben vedere sembra che – come è abitudine in Italia – ciò che è definito “straordinario” è un programma di attività del tutto ordinarie per un ministero dei beni culturali.

Non ci siamo abituati, ma sappiamo bene che il lavoro ordinario, nelle amministrazioni pubbliche di ogni settore (dalla scuola all’università, dalla sanità ai beni culturali, dai servizi per l’impiego all’assistenza sociale) è affidato a un numero crescente di lavoratori e lavoratrici precarie, che nel passaggio sempre incerto da un contratto all’altro si fanno carico molto spesso di non interrompere le attività e i servizi, pur con l’interruzione della loro retribuzione.

La precarietà del lavoro è associata infatti ad uno straordinario senso di responsabilità – questo sì straordinario – da parte di tanti lavoratori e lavoratrici, che contrasta in modo surreale con il modo in cui vengono trattati dallo Stato, che sistematicamente disconosce e deprezza le loro competenze e capacità, pur avendo investito per costruirle attraverso il sistema pubblico di istruzione e pur sostenendo i costi di infinite selezioni per scegliere “i migliori”.

E’ questo che spiega lo stagismo di Stato, la promozione dello stage al posto di un vero contratto di lavoro, anche il peggiore, perché evidentemente non basta più la precarietà ma occorre il disconoscimento completo della condizione di lavoratore, a cui si associa ancora qualche residua tutela e qualche minimo diritto costituzionale. E’ sufficiente stabilire che una persona, in quanto giovane (dispregiativo di adulto), anche se laureata con il massimo dei voti, con una specializzazione o un master e qualche esperienza alle spalle, non è pronta per un lavoro vero ma deve ancora imparare: ecco quindi lo stage, l’occasione che ogni giovane aspetta per fare un lavoro che sa già fare, spesso ha già fatto, o potrebbe comunque imparare in breve tempo, senza che possa chiamarlo lavoro.

Leggere le “modalità di svolgimento del programma formativo” del MiBACT fa capire ancora una volta che la vera ossessione non è mai quella di dare una formazione di alta qualità, con metodologie e organizzazione all’altezza degli obiettivi, ma quella di disciplinare gli arruolati di turno, in questo caso i giovani selezionati per inventariare e digitalizzare il patrimonio culturale italiano.

Lo stage prevede dunque un anno di “formazione” che “non dà luogo alla costituzione in alcun modo di un rapporto di lavoro subordinato”, ma che prevede un “impegno orario che non potrà essere inferiore alle 30 ore settimanali e superiore alle 35 ore settimanali”, senza alcun rimborso o buono pasto (pur dovendosi svolgere nei siti e luoghi individuati dall’Amministrazione), con “una indennità di partecipazione, al lordo, di euro 5.000 annui, comprensiva della quota relativa alla copertura assicurativa”.

Che relazione c’è tra l’allarme sulla disoccupazione giovanile lanciato ripetutamente dal Presidente del Consiglio e questo genere di interventi? Nessuna. Una formazione per chi è già formato, nessun lavoro per chi è disoccupato, una indennità offensiva, non sono una risposta ma una proposta indecente. Il ministro Bray farebbe bene a ritirarla e a definire un programma più serio per la cultura e per l’occupazione dei giovani laureati.

Lilli Pruna

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