Bodei: “Se Soru mi chiamasse, potrei tornare in Sardegna”

“Non sono un animale politico” avverte, eppure a sentirlo parlare di diritto, di coscienza civile e impegno verrebbe voglia subito di metterlo a un posto di comando. Una folla ordinata e composta lo segue a ogni dibattito, incontro, lezione, seminario. Remo Bodei, filosofo, classe 1938, è uomo molto amato sia sull’isola, dove è nato, sia negli States, dove insegna. Nella quattro giorni  cagliaritana organizzata dal teatro Massimo è stato tra gli animatori della seconda edizione del Festival di filosofia, ovvero 6mila persone di pubblico e 9mila collegamenti in streaming sul canale Tiscali. Numeri di cui lo stesso Bodei, ciuffo charmante sugli occhi, si rallegra.

“C’è bisogno di conoscenza e fame di pensiero. A Cagliari come a Sarzana, Genova o Pistoia. Oggi i nostri nostri mezzi d’informazione ci offrono una sorta di fast food intellettuale, una specie di ghetto culturale da terza pagina. In più c’è la scuola che non funziona e una crisi che sfianca. È questo il momento esatto in cui l’uomo inizia a porsi i grandi interrogativi”.

Vivere nell’isola, dentro il grande baco, aiuta a rimanere aderenti ai grandi ideali?

La Sardegna non ha grosse specificità rispetto ad altre regioni d’Italia, dunque non è esente dalle correnti della modernità. Il disagio sociale è forte come in tutto il sud del Paese, interi comparti stanno chiudendo, la pastorizia è in pericolo. A questo punto la tendenza è duplice: o chiudersi in se stessi e andare alla deriva oppure spingersi fuori, cercando fortuna. Ma attenzione, andare fuori per acquisire insegnamenti e poi ritornare per portare competenze, perché l’emorragia di risorse in una terra già disabitata come la nostra potrebbe rivelarsi una scelta drammatica”.

Oggi lei insegna e vive a Los Angeles, se la chiamassero tornerebbe in Sardegna?

“Potrebbe succedere, certo. Voglio anche vedere come andranno le cose dopo le elezioni regionali. Se Soru mi chiamasse, io ci sarei. In Sardegna c’è molto da fare, abbiamo ancora della eccellenze dormienti, come il turismo che abbiamo relegato alle spiagge; la cultura delle zone interne, gravida di conoscenze; e i campus di ricerca sul modello di Sa Illetta, esperimenti da replicare”.

Come ha trovato Cagliari in questo tempo di crisi?

“Per alcuni versi la trovo più dinamica, più curiosa. Ma se avessi una ruspa butterei giù molto di quello che è stato costruito. La mancanza di cultura estetica è sbalorditiva. Cagliari è davvero una delle città più belle del mondo, eppure si fa di tutto per abbruttirla. Ci sono alcune zone di Mulinu Becciu, attorno al “Brotzu” che hanno l’effetto di un pugno nell’occhio. Ma anche dal Bastione di San Remy o dal Terrapieno si può godere dell’orrido”.

Qualche suggerimento per l’amministrazione Zedda?

“Quello di puntare su scuola e ricerca, perché come diceva Bergonzoni, uno dei nostri ospiti al festival, occorre ricominciare dagli asili. Cagliari si sta trasformando in una città sudamericana, una città di ‘compradores’ dove la legge la fanno i concessionari. Al sindaco Zedda, che non conosco personalmente, ma di cui leggo l’operato anche oltreoceano, consiglierei di tenere più a cuore il bene pubblico, di porre attenzione alla pianificazione urbanistica, perché poi diventa difficile mettere le pezze, e si rischia il disastro come è successo alle nostre coste. Eppoi ci sono dei paradossi che mi sfuggono: siamo la città del turismo e sulla nostra spiaggia è diventato difficile trovare un baretto aperto. Le nostre casse sono perennemente vuote, però si devono dare 77 milioni a Cualbu per Tuvixeddu. Scandaloso”.

C’è ancora la possibilità di aspirare a un futuro migliore?

“‘Diventa quel che sei’ si dice nella tradizione classica, bisogna saper sviluppare quello che è latente, sgomitolare se stessi, come scriveva Gramsci. In fondo, noi siamo già siamo un cantiere aperto, cantiere che continuamente si rinnova. Abbiamo un repertorio di vite sterminato, il peso del nostro immaginario anche grazie ai media è cresciuto enormemente. Ma è una molteplicità che ci forma e al contempo ci nasconde, perché siamo ignoti a noi stessi. Passiamo tutta la vita a metterci in scena, navighiamo in un mare che non ha vie tracciate d’anticipo, rischiando sempre il naufragio. Ci sono tempeste che possono stroncarci, ma altrettante forme di indifferenza che diventano letali.”

Donatella Percivale

 

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