Guerra, rincari e speculazioni: così l’agroalimentare rischia il colpo di grazia

Marzia Piga

di Marzia Piga

La guerra tra Russia e Ucraina non è una causa, ma un fattore moltiplicatore. Si aggiunge a una crisi dei mercati che per quanto riguarda i prezzi è in tensione dal 2008 e che si è acuita con gli effetti a catena emersi dalla ripresa post-pandemia. Così i problemi nati nei principali scali di scambio mondiali alle prime aperture dopo i vari lockdown, i rallentamenti delle catene di forniture, gli aumenti vertiginosi dei costi di trasporti e di noleggi dei container, hanno fatto da base d’appoggio per l’escalation al confine ucraino delle ultime settimane. A farne le spese maggiormente è il settore agroalimentare italiano, che solo qualche settimana fa festeggiava il record dei 50 miliardi di euro di esportazioni.

Gli impatti sugli approvvigionamenti energetici, e di gas in particolare, sulle forniture globali di grano e mais e quelli indiretti sull’incertezza derivante dall’applicazione delle sanzioni alla Russia, sono devastanti a tutti i livelli delle filiere agroalimentari: dalla produzione alla trasformazione, dall’imballaggio alla spedizione, dalla difficoltà di esportazione ai limiti sugli acquisti dai Paesi interessati. E su tutti incombe lo spettro delle speculazioni, di cui è oggetto in particolare questo settore. Basti pensare che secondo gli esperti dei mercati entro il 2022 Pechino potrebbe aggiudicarsi il controllo di oltre il 50 per cento delle riserve mondiali, oltre al 60 per cento di quelle del riso e il 69 per cento del mais.

I prezzi dei cerali nei mercati mondiali

Un recente rapporto di Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare dedicato al monitoraggio, allo studio e all’analisi delle dinamiche dei prezzi e dei mercati, sulle conseguenze della guerra in Ucraina nell’agroalimentare evidenzia come frumento tenero, frumento duro e mais abbiano raggiunto in Italia e all’estero quotazioni mai toccate prima, mentre il mercato dei futures alla borsa di Chicago, la più importante per il mercato cerealicolo mondiale, manifesta ogni giorno da settimane una fortissima volatilità. Non tutto però, sottolinea anche Ismea, è riconducibile direttamente alla guerra e soprattutto le dinamiche alla base della fiammata variano da prodotto a prodotto.

L’analisi considera anche i dati emersi dal rapporto Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) sull’aumento dei costi di produzione cui devono far fronte le aziende agricole a seguito dell’impennata dei prezzi. Ad essere più penalizzati secondo lo studio, con i maggiori incrementi percentuali  (tra il 65 e il 70%), sono i seminativi, la cerealicoltura e l’ortofloricoltura per l’effetto congiunto dell’aumento dei costi energetici e dei fertilizzanti, seguiti dalle aziende che operano principalmente con la produzione di latte (+57%).

“A livello medio nazionale l’aumento dei costi si attesterebbe al +54 per cento con effetti molto rilevanti sulla sostenibilità economica delle aziende agricole, in modo particolare per quelle marginali”, si legge nell’analisi. L’aumento dei costi di produzione per le sei voci di spesa considerate fondamentali sono elevati. L’elenco comprende: fertilizzanti, mangimi, gasolio, sementi e piantine, fitosanitari e noleggi passivi. L’impatto medio delle aziende agroalimentari è di oltre 15.700 euro l’anno, ma con forti differenze tra i vari settori produttivi.

Importazioni a rilento

C’è poi il fatto che i due Paesi in conflitto rappresentano insieme oltre il 30 per cento del commercio mondiale di frumento e orzo, il 17 per cento del mais e oltre il 50 per cento dell’olio di girasole. Gli scambi di questi prodotti sono stati sostanzialmente congelati, inoltre la situazione del conflitto impedisce agli agricoltori ucraini di procedere con le semine primaverili, con evidenti conseguenze negative anche a medio e lungo termine per le imprese agricole europee che lì si approvvigionano.

Le conseguenze nell’Isola

Il mix letale di questa congiuntura economica internazionale ha sollevato negli ultimi giorni in Sardegna il dibattito sull’autosufficienza produttiva e al tempo stesso sul conseguente rischio di sfruttamento e di ‘servitù economica’ come avvenuto nei decenni passati in altri settori.
Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’Isola era la seconda regione dopo la Sicilia per coltivazione di frumento duro in Italia: 158.000 ettari su 1,29 milioni totali. All’epoca dei romani era il granaio dell’Urbe e, quasi due millenni dopo, in periodo fascista era tornata ai vecchi fasti anche grazie all’aumento dei terreni coltivati a seguito dell’importante piano di bonifiche.

Da quei periodi il crollo, complici anche alcune politiche agricole europee degli anni Ottanta e Novanta. Attualmente, a vedere gli ultimi dati Istat, l’Isola per quanto riguarda il grano duro è passata in un anno (dal 2020 al 2021) da una superficie coltivata di 18mila ettari a 21.150 e da una produzione di 463mila quintali a 665mila. Ma nonostante le posizioni di alcuni, come l’imprenditore Alberto Cellino, titolare della più grande realtà sarda del settore dal punto di vista della produzione e trasformazione, che punta sempre di più all’ampliamento della superficie coltivabile, l’autosufficienza per la Sardegna è ben lontana dall’essere raggiunta. Come sottolineano in molti, esperti delle Università di Cagliari e Sassari e addetti ai lavori, non si può pensare all’Isola come capace di competere con i numeri di produzione nemmeno globale, ma almeno italiana, e non sarà mai possibile tirare fuori un prezzo di mercato competitivo e al tempo stesso vantaggioso per la filiera.

Resta comunque necessario riappropriarsi delle terre abbandonate e ri-coltivarle, così come le associazioni agricole, a partire da Coldiretti, chiedono da tempo. Nei giorni scorsi l’Unione europea ha dato il via libera alla semina in Italia di altri 200mila ettari di terreno per una produzione aggiuntiva di circa 15 milioni di quintali di mais per gli allevamenti, di grano duro per la pasta e tenero per la panificazione, necessari per ridurre la dipendenza dall’estero. Una decisione importante, anche se per la Sardegna da sola è poca cosa, il grosso dell’impatto si avrà per Regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, grandi produttori di cereali.

L’acqua e gli accordi di filiera

Uno strumento utile ma non basta secondo le associazioni di categoria. “Non possiamo che essere d’accordo con la nuova politica di rimessa in produzione delle tante terre incolte e abbandonate della Sardegna promossa da Bruxelles e Roma. Si tratta di una battaglia che, come organizzazione agricola, stiamo portando avanti da tanto tempo e che ci ha visto protagonisti nelle attività, già messe in essere nei giorni scorsi, di cui si è fatto apri pista il Consorzio di Bonifica dell’Oristanese nell’aumentare l’erogazione idrica nei campi”, commenta il presidente di Confagricoltura Sardegna, Paolo Mele.

Per Mele sono importanti strumenti che agevolino gli agricoltori, prima tra tutte la disponibilità dell’acqua di irrigazione. “Affinché il progetto sia davvero realizzabile è necessario che i Consorzi di bonifica aumentino la disponibilità dell’acqua per l’irrigazione dei campi, allarghino le condotte anche verso quelle realtà che oggi operano in asciutto, e assicurino costi sostenibili per gli agricoltori”, sottolinea il responsabile dell’associazione.

Non solo. “È fondamentale assicurare la chiusura del cerchio che deve favorire la costruzione di accordi di filiera, almeno quinquennali, tra agricoltori e allevatori (ovicaprini, bovini e suini) cosicché i cereali prodotti possano avere un mercato assicurato nel locale con prezzi remunerativi per chi lavora i campi. È impensabile spingere gli agricoltori ad avviare colture di mais, grano, girasole, miglio, avena e altri prodotti, senza che il comparto zootecnico isolano assicuri i consumi. La guerra e la crisi internazionale hanno messo in evidenza la nostra dipendenza dai mercati esteri e la nostra fragilità che ci ha visto cadere solo dopo poche settimane di frizione dei mercati. Oggi abbiamo la possibilità di rimetterci in piedi e anche la Regione e il Governo devono crederci mettendoci nelle migliori condizioni, anche attraverso incentivi sulle produzioni, per renderci autosufficienti sulla gestione delle materie prime agricole”.

Marzia Piga

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