Intervista allo chef Roberto Petza: “Assistenzialismo e zero servizi, i mali dell’Isola. E il mare non basta più”

Siddi per due giorni diventa la Capitale del cibo: nel piccolo centro della Marmilla il festival del cibo ‘Appetitosamente’ riunisce, da ormai otto anni, il meglio dell’enogastronomia. Tutto grazie all’impegno e alla lungimiranza dell’amministrazione comunale, di Slow food, della Cooperativa Villa di Silli e dello chef stellato Michelin Roberto Petza. Che proprio a Siddi, a Casa Puddu, ha voluto trasferire la sua creatura, il ristorante ‘S’Apposentu’.

 

Roberto Petza, partiamo dal luogo: dove siamo?

Siamo nel cuore della Marmilla, uno dei posti più disagiati d’Italia. Possiamo dire di aver vinto una scommessa, all’inizio nessuno credeva in questo progetto. La gente arriva a Siddi, che devo dire è abbastanza sconosciuta anche ai sardi. Adesso se lo conoscono questo mi fa piacere per il paese, per il territorio, anche perché questa è la mission che vogliamo portare avanti. Grazie al Comune di Siddi, che ci ha creduto da subito, e alla nostra tenacia, abbiamo vinto la scommessa, essendo fuori dalle rotte più battute. Qui non c’è il mare e non c’è la montagna.

Lei è uno di quei sardi che è tornato nell’Isola, dopo varie esperienze importanti nella Penisola e all’estero. Ed è voluto tornare nell’hinterland, non le bastava Cagliari?

Devo dire che Cagliari è stata un po’ ingrata nei miei confronti. Purtroppo si impara anche dagli errori. Avevano il ristorante più importante della Sardegna, n°74 in Italia, una stella Michelin, anche il teatro poteva averne giovamento. E invece hanno voluto buttare via cinque anni del mio lavoro, duri e pieni di sacrifici. La Sardegna è difficile, non è Milano. Lì dove apri, se sei bravo, sfondi. Qua è sempre una sfida tutti i giorni, un terno al Lotto.

Petza, come si combatte l’invidia da sardo in Sardegna?

È una questione culturale, ci vuole tempo. Io spero che le nuove generazioni stiano cambiando e stiano prendendo atto che comunque con quest’arma non si va avanti. Un agricoltore ieri mi diceva che se in Sardegna abbiamo cento ettari coltivabili dobbiamo avere cento trattori, cento frese, cento imballatrici, mentre se si facesse un po’ di rete, un po’ di cooperazione e di collaborazione tra tutti saremo un’isola felice.

Per quale motivo ha scelto Siddi?

Sono capitato per caso, non conoscevo questo posto. Sono arrivato con una troupe di operatoti australiani che stava realizzando un documentario sulla pasta fresca. Qui c’è una comunità del cibo per cui fanno ancora la pasta fresca a mano. Eravamo venuti a filmare queste signore. Lì è sfociato l’amore e il sindaco di allora, Marco Pisanu, mi chiese se volevo aprire un ristorante qui. Dissi di no. Ma poi si sviluppò un progetto sull’Accademia di cucina, che insieme al ristorante porto avanti insieme all’aiuto di Gianfranco Massa, che è il direttore della Fondazione Casa Puddu. Da lì nacque questa avventura. Quattro anni a lottare. Ma bisogna cogliere il momento. Non si può aspettare in un’attesa estenuante.

Quindi qui s’insegna cucina?

Io insegno il territorio. Di scuole di cucina ce ne sono tante. A Siddi non puoi solo insegnare cucina, devi insegnare qualche cosa di più. Devi far capire che si può fare una cucina sostenibile, una cucina che rispetta il luogo in cui sei. Valutando i prodotti che il territorio ti dà. Questo è per me il concetto di cucina. L’Accademia Casa Puddu si propone come volano, per dare una spinta a questo territorio. E quello che stiamo facendo, creando una rete di operatori e di produttori. E creando dei piccoli ambasciatori che portino in giro il territorio. Che è la cosa che ci interessa di più. Se fossimo qua per i soldi, nessuno ci rimarrebbe. È come una missione…

Quale è stata la motivazione che l’ha spinto a tornare in Sardegna?

Il mal di Sardegna. Io volevo fare il falegname. Mia madre mi iscrisse alle magistrali, che io odiavo, e quindi di nascosto mi iscrissi alla scuola alberghiera. Mi sono diplomato negli anni ’80, la Sardegna non offriva niente, c’erano pochi ristoranti che si rispettavano. Avevo voglia di fare qualcosa di diverso, vedere cose nuove. Questo mi ha spinto ad andare via.

Si può dire che è tornato per lo stesso motivo?

Sì. Quando sono tornato in Sardegna in vacanza, dopo quindici anni e vedendo l’Isola da ‘vacanziere’, ho creduto che fosse cambiata. E quindi hai l’incoscienza di dire: è tutto bello, funziona, la Sardegna è andata avanti. Invece poi mi sono accorto che, anzi, è tornata indietro. L’economia era crollata, il mio paese, San Gavino, era diventato più piccolo. La fabbrica era chiusa. Oggi non lo chiamo più coraggio, ma incoscienza. Incoscienza di ignorare quello che c’è attorno.

Lo rifarebbe?

Non lo so. Avevo in mente di aprire un ristorante a trent’anni. Capitò che mio padre mi chiamò qui per vedere un locale. E decisi di restare.

Che cosa chiede alla Sardegna e alla politica sarda? Che cosa manca alla sua attività per farla sentire davvero a casa?

Io dico che la Sardegna si è abituata a dire “abbiamo il mare più bello del mondo”. Ma di mari belli in giro per il mondo ce ne sono tanti. Il mare bello non basta più. Oltre al mare ci devono essere dei servizi. La Sardegna è a un livello bassissimo per i servizi. Non li abbiamo. La 131 è un cantiere da vent’anni, e queste cose, purtroppo, il turismo le paga. Uno non può pagare settecento euro e più solo per arrivare in Sardegna e poi trovarsi senza servizi. La politica sarda dovrebbe guardare al comparto turistico e soprattutto all’agroalimentare. Invece continuiamo a foraggiare industrie come ammortizzatori sociali, come pozzo senza fondo. Noi abbiamo già il petrolio sotto i piedi, e sopra la testa, ma non ce ne siamo accorti. E non ce ne vogliamo accorgere. Tanti anni di assistenzialismo ci hanno portato via la voglia di fare. E questo con rammarico lo dico da sardo. Mi spiace vedere la gente così remissiva e pessimista, senza la voglia di rimboccarsi le maniche. È un peccato. E questo lo dobbiamo alla nostra politica.

Qual è la ricetta per la quale si sente più soddisfatto?

Le ricette sono sempre espressione di un momento. Di quello che senti di quello che hai. E di quello che vedi. Io parto sempre dal prodotto. E da lì ho già in mente quello che voglio fare. Riesco a finalizzare il piatto e quello che voglio realizzare già prima di averlo toccato con mano.

E ultimare così la filiera del prodotto?

Sì, ‘Filiera del prodotto’. Bella definizione. È proprio questo che la politica sarda non ha capito: che noi siamo l’anello finale della filiera. Ma l’anello finale che esalta il prodotto. Peccato davvero che non veniamo considerati per quello che siamo. I risultati della Spagna in quindici anni sulla filiera dell’enogastronomia sono straordinari. Ora sono primi in tutti i campi. Questo significa che se il governo ci crede riesce a esportare e far lavorare tutti quanti con il prodotto che ha.

Davide Fara

 

BIO – Chi è ROBERTO PETZA

Nasce nel 1968 a San Gavino Monreale, piccolo centro della pianura del Campidano. Dopo il diploma dell’Istituto Alberghiero di Alghero decide di andare nei migliori ristoranti in Italia e all’estero.

Nel 1998 rientra in Sardegna e inaugura nel suo paese natale il ristorante S’apposentu, raccogliendo riconoscimenti e incarichi che ne attestano l’assoluto valore. Nel 2002 si trasferisce a Cagliari e fonda il ristorante S’apposentu al Teatro Lirico. È un grande successo. La sua cucina del territorio, con materie prime selezionate, è apprezzata da noti gourmet e le grandi guide gastronomiche nazionali e internazionali lo premiano, fino ad arrivare alla stella Michelin.

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