I fratelli Pinna di Thiesi, una storia di grandi successi (e di grandi formaggi)

È giunto da poco nelle librerie il saggio di Paolo Fadda “Fratelli Pinna, una storia di successi”. È il quinto titolo della collana edita da Carlo Delfino dedicata alla migliore imprenditoria sarda (fa seguito a quelli dedicati a Giovanni A. Sanna, Francesco Zedda Piras, Salvatore Azzena Mossa e Franceschino Guiso Gallisai), e consta di 295 pagine, di cui 55 di illustrazioni. Lo presenta, con questo scritto, lo stesso autore.

Andare alla ricerca delle isole felici in questa Sardegna che è un po’ un arcipelago d’infelicità e di tristezze, è stato lo scopo primo di questa collana che l’editore Carlo Delfino ha voluto dedicare ai “grandi” dell’imprenditoria sarda, chiamando poi chi scrive questa nota a dirigerla.

Così, nel percorrere quest’itinerario di ricerche, si è giunti a Thiesi, piacevole e laboriosa cittadina del Meilogu, dove la felicità s’incontra e si realizza grazie a quei formaggi pecorini che qui, da circa un secolo, hanno trovato nei Pinna (fratelli e cugini) i loro fattivi e sapienti mentori. Tanto che questa cittadina ha conquistato il titolo, con giusto merito, d’essere la capitale italiana di quei formaggi così gustosi e prelibati di cui tutta la Sardegna va fiera.

Così scrivendo dei Pinna, e delle loro performance imprenditoriali, chi scrive ha ripercorso la storia di quest’industria casearia che, forse per prima, è riuscita, con le sue produzioni, a collegare l’isola con quel vasto mondo overseas, che si trova oltre il Tirreno e l’Atlantico.

Ed è una storia che inizia nel decennio finale dell’Ottocento allorché dei pizzicagnoli romani, i fratelli Castelli, giunsero in Sardegna per poter incrementare i loro affari, divenuti assai importanti per via delle forti richieste “americane” di pecorini stagionati, provenienti dalla numerosa colonia di immigrati italiani.

E’ in quel filone d’export che, a partire dal 1919, s’inseriranno i fratelli Pinna di Thiesi – Giommaria e Francesco – attratti, loro che erano dei commercianti con il giusto “bernoccolo degli affari”, da quello straordinario business delle vendite a New York di importanti partite di pecorino tipo romano. Molto addentro al mondo dell’allevamento per via d’essere da sempre assai attivi nel commercio del bestiame, non ebbero difficoltà a gestire diverse migliaia di litri di latte ovino da caseificare nelle pinnette dei pastori, per poi salare e stagionare nella propria cantina. Così, per dare maggior spazio ai loro progetti, costituiranno, insieme ad altri amici-soci, una “società d’esportazione”, inviando nell’inverno del 1927-28 nella città della Grande Mela il giovane Francesco, detto “Bulvarinu”, per via del carattere scoppiettante come polvere da sparo, perché stabilisca degli accordi pluriennali con i principali importatori di quella piazza.

Purtroppo la depressione originata dalla pesante crisi di Wall Street nel 1929, avrebbe “stoppato” gli intendimenti dei Pinna e le loro ambizioni per l’export negli USA, ma non intaccato in alcun modo la loro fiducia in quel formaggio sardo-romano così apprezzato dai consumatori. Così la storia imprenditoriale dei Pinna di Thiesi avrebbe continuato in simbiosi con quei formaggi, diventati ormai il “main product” dei loro affari.

La svolta più importante e significativa sarebbe comunque avvenuta negli anni del secondo dopoguerra, con l’entrata in campo dei figli di Giommaria e Francesco, la seconda generazione. Avverrà sotto il segno dell’innovazione, con la costruzione, fra i primi nell’Isola, di una vera e propria “fabbrica di formaggi” capace di caseificare “a vapore” 10-12 mila litri di latte ovino al giorno (oggi si è giunti a 260 mila).

Sarà questo il passaggio decisivo per un’industria casearia che in quest’ultimo mezzo secolo è cresciuta in modo esponenziale, raggiungendo i 65 milioni di euro di fatturato e gli oltre 100mila quintali di formaggi prodotti (dagli 8 milioni di euro e dai 15mila quintali del 1960). Merito di una terza generazione che ha fatto propri – innestandoli poi con intelligente sapere – i principi fondamentali dei loro padri e nonni incentrati nella fedeltà al prodotto (i formaggi pecorini) e nell’innovazione (di processo, di prodotto e di mercato). È quindi, questa dei Pinna, una storia esemplare e, per tanti versi, anche estremamente istruttiva. Proprio perché indica, nei diversi passaggi evolutivi compiuti (e che il libro ricorda con molta precisione), di come dovrebbe evolversi l’intero settore caseario isolano, oggi in crisi per un calo impressionante dei prezzi del suo prodotto clou: in 36 mesi infatti il prezzo del “romano” è passato da circa 10 euro al chilo a poco più di 5 euro.

Infatti, mentre gran parte dei caseifici sociali producono tuttora solo “romano”, incuranti degli andamenti così penalizzanti del mercato, a Thiesi ora più di tre quinti della produzione è fatta di molli e freschi, lasciando allo stagionato una posizione del tutto minoritaria. Indicazione istruttiva, quindi, proprio perché, riprendiamo, ha indicato la strada da percorrere per liberarsi da quelli che sono stati, e lo sono tuttora, i due punti principali di forte debolezza dell’intero settore: l’essere rimasto indirizzato in prevalenza a produrre un monoprodotto (lo stagionato tipo romano) e dipendente in gran parte da un monomercato (quello degli USA), tra l’altro assai instabile perché aperto a molti competitors, sia per tipologie similari, per bassi prezzi e per variabilità valutarie e politiche.

Per questo il libro andrebbe letto non solo per conoscere la belle histoire di questa famiglia thiesina, ma anche per meglio intendere e comprendere quelli che sono attualmente i problemi di un settore – quello della trasformazione industriale del latte ovino – che è strategico per il mantenimento di un settore, quello della pastorizia, determinante per l’equilibrio sociale ed il mantenimento demografico delle nostre zone interne.

Ed è poi questo l’intendimento che ci si è posti nel narrare quest’affascinante viaggio imprenditoriale dei Pinna di Thiesi.
Chi scrive questa nota ne è l’autore, e ritiene molto importante sottolineare proprio quest’aspetto di fedeltà “al borgo natio” che ha voluto segnalare come vero fattore critico di successo dell’impresa: perché – ha scritto nella conclusione del suo saggio – “in queste realtà minori la fabbrica si umanizza, diventa parte integrante del paesaggio antropico al pari del municipio, della chiesa e del campo sportivo. Perdendo così quelle caratteristiche disumanizzanti (e talvolta portatrici di anomalie e disturbi sociali) riscontrabili nei grandi agglomerati industriali”. E ritrova proprio in quella coesione le sue capacità di crescita e di affermazione.

Paolo Fadda

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