Una struttura protetta e segreta per liberarsi dagli sfruttatori e tornare a vivere

È dai primi anni del 2000 che l’ente religioso della Congregazione delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli di Cagliari si occupa della protezione, il sostegno e il reinserimento sociale delle donne vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Dal 2003 ad oggi sono 254 le donne prese in carico dall’istituto sardo. Vengono accolte in due strutture protette e segrete – una vicino Cagliari e l’altra vicino Sassari – le uniche presenti in Sardegna. Di queste 254 donne, 34 sono mamme con bambini a carico, il 27% hanno meno di 20 anni, il 62% tra i 20 e i 30, l’11% hanno più di 30 anni.

Un vero traffico di esseri umani, che nel mondo coinvolge le donne per il 99%. Una rete criminale molto estesa e articolata in più fasi: reclutamento,  trasporto, trasferimento, alloggio e accoglienza nelle case di prostituzione. Una rete che ricava enormi profitti dallo sfruttamento sessuale ma che coinvolge altre attività criminali come il traffico d’armi e di droga.

“Quando giungono nei centri d’accoglienza italiani il destino di queste donne è spesso già segnato. Dopo l’identificazione da parte della prefettura, in teoria sarebbero libere, libere di andare dove vogliono, ma purtroppo non lo sono”, raccontano Anna Cordedda e Daniela Di Napoli, le due operatrici che da circa sei anni lavorano con dedizione al recupero di queste giovani. Sono donne pacate e ferme. Restie alla visibilità mediatica del loro operato, che seppur faticoso sono certe sia fondamentale per arginare il moderno schiavismo presente nelle nostre società europee. Anna ha 51 anni, è madre di un figlio di 10, ha una laurea in Lettere Moderne e un master in ‘Didattica della lingua italiana per stranieri’ conseguito alla Cà Foscari di Venezia. Daniela di anni ne ha 45, è laureata in Scienze politiche e ha conseguito una seconda laurea in Psicologia.

“Sono poche, ma in aumento, le donne che denunciano la loro condizione di sfruttamento” – dicono le operatrici. “Per molte ragazze è difficile capire che il loro dramma nasce all’origine, al momento della partenza dal loro paese. Si convincono di essere finite col fare le prostitute per un caso, per sbaglio, non perché ci fosse un volere preciso sin dalla firma del contratto in Nigeria. Non pensano di essere state raggirate e ingannate, credono che la loro condizione di prostitute dipenda esclusivamente dall’Italia e dagli italiani, anche perché questi sono i loro clienti.” Così quando decidono di tentare di salvarsi dalla strada non si fidano neanche di chi le recupera e le vuole salvare come Anna e Daniela.

Il grande e semplice obiettivo giornaliero delle operatrici è “stabilire con le ospiti una relazione di fiducia”. La fiducia è il nodo, e va conquistata attraverso la capacità di ascoltare le ragazze e sintonizzarsi sui loro bisogni. “Sono diffidenti, ostili, perché si sentono tradite e abbandonate da tutti, compresa la propria famiglia”. Ciò che si attendevano dal lungo viaggio era una vita “europea”: un lavoro, gli amici, forse un matrimonio. “Quando arrivano qui ad attenderle c’è solo il raggiro, lo sfruttamento, la violenza”.

Il cammino di emancipazione dalla condizione di repressione fisica e psicologica che le operatrici devono far loro percorrere è lungo e difficile. E si accompagna ad un cammino di continua crescita e formazione delle operatrici stesse. Il punto è che Anna e Daniela si devono formare e informare per conto proprio dato che lo Stato solo in parte rimborsa la loro formazione. Non hanno assistenza psicologica nè ferie forzate come in professioni simili.

Il rapporto di lavoro con l’istituto religioso delle vincenziane è ottimo, vengono ascoltate e coordinate con particolare attenzione e sensibilità. È un lavoro duro dove “imparano ogni giorno qualcosa di nuovo” e considerano la loro professione una scelta di stile di vita, una missione. Ma tutto questo non basta, nonostante le competenze e la forte volontà di chi ci lavora, l’organizzazione della tratta delle donne è sempre più forte e gli stati europei non rispondono con misure adeguate a questo crimine.

Quelle poche volte che le ragazze denunciano il loro stato di schiavitù attraverso le strutture protette vengono inserite in programmi specifici emanati dal Ministero delle Pari opportunità. Programmi che hanno generalmente la durata formale di 12 mesi, “ma il recupero reale è sempre molto più lungo”.
I programmi comprendono la tutela dell’incolumità, della riservatezza e dell’identità, il supporto nei procedimenti giuridici ed amministrativi, anche ai fini di un risarcimento per il danno subito, e l’attuazione di tutte le misure relative al recupero fisico, psicologico e sociale con il conseguente inserimento lavorativo, tenendo in considerazione le specificità legate all’età e al sesso, e con un’attenzione particolare per la situazione dei minori.

Quando le ragazze entrano in struttura oltre il timore di ulteriore raggiro, hanno serie difficoltà culturali oltre che linguistiche. Tutte le nigeriane parlano inglese, ma diverso da quello standard, un inglese detto comunemente broken english o pidgin english, che le operatrici a loro volta imparano per comunicare con loro. L’operatrice Anna tiene i corsi di lingua italiana. Lezioni che le allieve seguono malvolentieri. 
“Non è facile insegnare loro l’italiano – dice – per loro l’italiano  è la lingua dei loro clienti, che dal loro punto di vista rappresentano i loro carnefici”. Inutile spiegare che è utile per l’inserimento lavorativo; sono giovani, spesso adolescenti, e non possono capire sino in fondo che imparare la lingua è la chiave per cambiare vita.

In Sardegna però il vero problema è rappresentato dalla fase finale del programma di recupero, l’inserimento sociale e lavorativo. Mentre i posti per tirocini, corsi professionali, si trovano facilmente, al momento dell’assunzione vengono discriminate. Tant’è che per quest’ultima fase vengono inviate in strutture di altre città italiane dove l’inserimento è molto più semplice.

La Congregazione delle Figlie delle Carità è in rete con tutte le strutture presenti sul territorio italiano. Collabora in primis con la Questura, che è l’istituzione che rilascia il permesso per motivi umanitari, con l’OIM-Organizzazione Internazionale Migranti, e con l’associazione ‘On the road onlus’ di Vincenzo Castelli, esperto internazionale di politiche sociali e in particolar modo del traffico di esseri umani.

Tutte strutture sono rigorosamente segrete e protette come la Congregazione vincenziana. Dopo che le ragazze scappano dalla vita di strada il pericolo di ritorsioni per loro, infatti, è sempre presente. Un pericolo che esiste peraltro anche per chi in queste strutture ci lavora e ci opera. E proprio per una maggiore protezione le ospiti presenti nelle strutture sarde provengono sempre da città italiane, così come le ragazze recuperate dalla vita di strada di Cagliari, Sassari e altri centri della Sardegna vengono ospitate in strutture della penisola.

Ornella Demuru

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