Ottana Polimeri, un ramo secco per Indorama

Closure or not closure? Tiene ancora banco la domanda sulle sorti di Ottana Polimeri innescata dal comunicato stampa diffuso da Paolo Clivati, per il quale Indorama non avrebbe nessuna intenzione di abbandonare la Sardegna, nonostante il business plan della società thailandese (leggi il documento) definisca strategica la chiusura (closure) dello stabilimento sardo. A tal riguardo, qualcosa la dicono i report trimestrali con cui Indorama monitora la situazione degli asset di sua proprietà. L’ultimo, in ordine di tempo, risale allo scorso 10 novembre (leggi il documento) e rivela come “la chiusura degli impianti di Ottana e Workington in Inghilterra abbia migliorato la posizione di costo di Indorama nel mercato europeo”, fornendo alla multinazionale thailandese un vantaggio nei confronti dei concorrenti in termini di minor costi affrontati. C’è di più, “con il pagamento di meno tasse e minori perdite da joint venture – il riferimento esplicito è a Ottana – il terzo trimestre del 2014 (quando ormai l’impianto del centro Sardegna era spento da diversi mesi) ha fatto registrare un incremento degli utili netti della società”, si legge nello stesso documento.

Per il management di Indorama, l’altro tasto dolente viene derubricato alla voce “non-cash impairments”. Si tratta di oneri di svalutazione non in contanti o, più semplicemente, di costi non monetari riferiti al deterioramento del valore di un asset. “La situazione di Ottana rimane difficile, l’asset sardo per la produzione del pet ha infatti comportato per la multinazionale thailandese costi non monetari pari a 12 milioni di dollari nel quarto trimestre del 2013 e a 21 milioni di dollari nel secondo trimestre del 2014”, spiega invece il report che risale al 5 agosto del 2014 (leggi il documento). Utile aggiungere che, sebbene non vengano conteggiate nei risultati correnti, queste somme rivelano quale sia l’appetibilità del riavvio della produzione nel centro Sardegna agli occhi di Indorama.

Le cose non vanno meglio se si passa alla voce “residual investment” (investimento residuo). Si tratta di una somma che indica l’importo destinato a remunerare l’investitore in seguito al pagamento delle spese di funzionamento, imposte sul reddito, debiti e via dicendo. Se, infatti, nel documento che fotografa la situazione economica della joint venture Ottana Polimeri al 5 agosto scorso, tale importo ammontava a 168 milioni di bath thailandesi, 4,5 milioni e mezzo di euro, al 10 novembre del 2014 l’investimento residuo si attestava a 3,9 milioni di euro.
Solo Indorama può dire se, presi insieme, i valori di questi indicatori possano far immaginare o meno un rilancio dello stabilimento barbaricino. Ma è significativo l’accostamento dello stabilimento sardo a quello inglese di Workington. “The Indorama factory in Workington has finally closed its doors – but nearly half the staff have yet to find new jobs” (L’impianto di Indorama chiude, ma quasi la metà dei lavoratori ha già trovato un nuovo lavoro) titolava lo scorso 5 aprile il giornale inglese News&Stars. In quel caso, le condizioni di mercato vennero considerate insostenibili dal colosso thailandese. Dall’articolo si evince anche che Indorama ha agevolato il ricollocamento degli operai specializzati presso altre aziende. “Da allora non si è più mossa una foglia a Workington”, assicura Sue Crawford, la giornalista del News&Stars che ha seguito la vicenda. “Indorama non ha cioè più manifestato l’intenzione di rilanciare l’impianto”. Il punto, dunque, è che “per Indorama le chiusure (“closure”) degli impianti di Ottana e Workington in Inghilterra sono strategiche al pari degli ampliamenti degli stabilimenti olandesi e polacchi”, così recita il business plan, che non dà adito a nessuna fantasiosa deduzione.

Insomma, se non direttamente in chiave globale, la multinazionale Indorama ragiona quantomeno in ambito transnazionale. E se è vero – stando a quanto emerso nel corso della conferenza dedicata al PET della ICIS, specialista nelle analisi del mercato petrolchimico a livello globale – che la capacità produttiva installata in Europa non soddisfa la domanda interna, è pur vero che gran parte della produzione egiziana e turca del pet è destinata all’Europa.
“Senza contare il nuovo accordo di libero commercio con la Corea del Sud che significa che le tariffe doganali sono state azzerate con la conseguente esportazione di circa 300.000 tonnellate/ anno di PET verso l’Europa. Turchia, Tailandia, Egitto e Indonesia hanno accordi per lo 0% di tasse e questo comporta un totale di 2,4 milioni di tonnellate di PET esportate in Europa. La produzione europea sembra pertanto destinata a crollare passando da più dell’80% nel 2013 a circa il 60-65% del 2015-2016”, concludono gli analisti della ICIS.

Piero Loi

 

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