La mia vita con Aurora

Puoi gioire perché tua figlia a quattro anni riesce anche una sola volta ad afferrare un cucchiaio. O perché un’altra volta è riuscita a dire “mamma”. E puoi trovare non solo il sorriso ma anche la forza di reagire alle carenze di un’organizzazione sanitaria che rende ancora più difficile la gestione di una malattia rara quanto terribile, la sindrome di Rett, una patologia degenerativa dello sviluppo neurologico che colpisce un bambino su diecimila e della quale in Sardegna si conoscono quindici casi. “Scoprire che Aurora ne era affetta – dice Enrico Deplano, il padre – è stata un’esperienza devastante”. Un’esperienza fatta di una quotidianità durissima, di solitudine, di continui viaggi sul Continente. Fino alla decisione di prendere la situazione in pugno, affrontarla con tutte le proprie forze.

Deplano è il responsabile per la Sardegna dell’Airett (Associazione italiana Rett). Sua moglie Alessandra ha ideato il progetto “Bambola Aurora”. D’accordo con le autorità scolastiche, si è recata nelle classi delle scuole dei quartieri cagliaritani di Monte Urpinu e di Monte Mixi per insegnare agli alunni come realizzare una bambola utilizzando soltanto strofinacci da cucina, ovatta e nastri. Sono state così realizzate centinaia di bambole, poi messe in vendita. Un modo per sensibilizzare docenti e studenti sulla malattia e anche per raccogliere fondi per l’associazione. L’evento che si terrà domani e sabato al Microcitemico di Cagliari – la trasmissione in videoconferenza del convegno nazionale dell’Airett – è stato realizzato anche grazie alle bambole di pezza.

Abbiamo parlato della vita di Aurora, che ha 6 anni, con Enrico Deplano.

Quando ha scoperto che suo figlia era affetta dalla sindrome di Rett?

“Dopo un continuo peregrinare di un anno e mezzo da un ospedale all’altro senza una diagnosi siamo partiti per il Continente. E’ stato lì che alla fine è arrivato il responso dei medici. Ci hanno spiegato che si trattava di una patologia rara,  degenerativa e polifunzionale. E’ stato devastante. All’inizio ti guardi intorno e ti rendi conto del deserto che ti circonda; poi reagisci per la salvezza di tua figlia, anche perché il deserto ti ha asciugato tutte le lacrime.”

Come sono le vostre giornate?

“La cura quotidiana e la gestione della patologia sono molto complicate, dal somministrare le medicine, all’accompagnare Aurora  alle terapie e alle numerose visite mediche frammentate tra vari ospedali: al “Brotzu” per il cervello e il cuore, a Is Mirrionis per la vista e al Microcitemico per l’aspetto genetico. La frammentarietà della presa in carico dei pazienti è la causa principale del ritardo nella diagnosi e nella riabilitazione.”

Nell’Isola le strutture ospedaliere sono adeguate?

“C’è un abisso tra le nostre strutture e quella di Siena, centro di riferimento nazionale della sindrome. Lì tutti i reparti operano comunicando tra loro. Invece, qui Aurora è seguita da più ospedali che non comunicano reciprocamente. Fuori dalla Sardegna in un unico day hospital facciamo più visite perché i reparti sono comunicanti, qui facciamo un day hospital per ogni visita e, visto che la malattia è polifunzionale, per arrivare a una diagnosi bisogna coordinare più referti con tutti i problemi che comportano i vari spostamenti. Negli ultimi anni, però, abbiamo visto un cambiamento, grazie alla collaborazione del Centro delle Malattie Rare del Microcitemico, diretto dal professor Galanello, scomparso di recente. Ora ci viene riconosciuto il rimborso di ricovero extraregione visto che fuori si trovano macchinari più evoluti.”

E la preparazione degli operatori?

“La bambina ha trascorso un anno senza quella ‘riabilitazione mirata’ che potrebbe migliorarne la qualità della vita. In Sardegna manca la formazione. C’era a Milano la possibilità per i terapisti di specializzarsi in questa patologia (dove sono importanti l’idroterapia, l’ippoterapia e la musicoterapia) ma nessun sardo ha partecipato ai corsi. Inoltre, per elaborare i dati che emergono dagli esami, servono dei biostatistici  e qui non ce ne sono”.

Ma esiste nell’Isola un centro per le malattie rare…

“Sì, esiste. E’ a Cagliari. Ma, come riconosceva lo stesso professor Galanello, che ne era il responsabile, ha una serie di carenze. I macchinari di diagnostica non sono tecnologicamente all’avanguardia. Parliamo infatti di apparecchiature dai costi elevati, che hanno una rapidissima evoluzione tecnologica. Aurora non parla e non può comunicare quel che sente. Se si dimena nella notte non può dirti perché e questo ti lascia un senso di vuoto. E ti conduce a porti senza sosta domande angoscianti: chi si prenderà cura di lei quando saremo vecchi e non più abbastanza forti per supportarla? E cosa accadrebbe se uno di noi due dovesse mancare? E poi l’assenza di una diagnosi genetica certa esclude Aurora dalle terapie sperimentali e, non potendo fare la diagnosi prenatale, non puoi pensare con serenità ad altri figli”.

Qual è la reazione della gente davanti alla malattia di Aurora?

“La gente ti guarda con indifferenza o, peggio, ti complica la vita. Come quando occupa il posto dei disabili o sei costretto a fare lo slalom per evitare gli escrementi lasciati dai cani sui marciapiedi. Ma la mattina ti svegli ugualmente con la voglia di rivedere quel visetto che comunque tutti i giorni ti dà soddisfazioni, come quando ha afferrato il cucchiaio per la prima volta a 4 anni, e poi mai più. O quando ha detto ‘mamma’, ma mia moglie era a lavoro e non lo ha potuto sentire. Purtroppo, la gente continua ad essere diffidente. Anche qualcosa sta cambiando. Chissà, forse un domani anche le altre Aurora potranno essere accettate.”

Ed è stata questa speranza a portarvi a lavorare nell’Associazione e anche a pensare il progetto “Bambola Aurora”…

“Sì. A un certo punto ti rendi conto che la tua esperienza può essere d’aiuto per gli altri. C’è una piccola comunità che si supporta a vicenda e un Centro delle Malattie Rare che funziona e che ti sostiene. Il progetto “Bambola Aurora” è un’idea di mia moglie per sensibilizzare le scuole sulla patologia. I bimbi sono molto più ricettivi e ci sono insegnanti e famiglie sensibili”.

Alessia Corbu

 

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