Storia, natura e misteri della Sardegna: scatti d’autore in mostra a Londra

In mostra, a Londra, la Sardegna di Cesare Fabbri: un ritratto fotografico dell’isola che sottolinea i ‘misteri’ di questo paesaggio primitivo. La maestosa vastità della terra, la presenza dell’uomo risolta in una traccia silente, spazi privi di conflitti. La natura incontaminata è specchio della creazione, un luogo pieno di risorse, di potenzialità; un ritrovato mondo ideale, all’interno del quale è assente qualsiasi minaccia al nuovo ordine delle cose che si sta imponendo.

Attraverso un punto di vista fuori dall’umano, Fabbri fa parlare i luoghi, da una voce alle strade, ai muri, ai cieli. L’intento non è quello di narrare una storia ma di dare forma alla storia, attraverso l’immagine-tempo. D’altronde, quando l’osservazione diviene contemplazione, la nostra percezione si amplifica dissolvendosi in spazio e tempo. Non a caso il filosofo Immanuel Kant sosteneva che queste due idee fossero innate nella nostra mente, come ‘forme a priori’, che sottendono ogni nostra interpretazione e rappresentazione della realtà.

In questi scorci di Sardegna, convergono natura, storia, tradizione, eternità, il flusso del tempo passato, presente e futuro. Il paesaggio non è più soltanto l’ambiente della nostra esistenza, spettatore e testimone delle vite di coloro che lo abitano, ma è il luogo della memoria, in cui respirare il nostro passato e ricevere alimento per il futuro.

Sulla traccia della conversazione con la scrittrice e fotografa Eleonora Milner (urbanautica.com), abbiamo chiesto a Cesare Fabbri come mai abbia scelto di fotografare la Sardegna.

“Frequento regolarmente la Sardegna da almeno un decennio ma ho cominciato a fotografarla in maniera sistematica, più o meno cinque anni fa. Anche se non seguo mai un progetto, per fotografare un luogo devo prima conoscerlo un minimo, affrontare una sorta di apprendistato nei confronti del suo paesaggio specifico. La Sardegna ha una condizione geografica e culturale veramente originale rispetto alla situazione italiana e tutte le volte che tento di descrivere la sua eccentricità ad una persona straniera mi piace definirla come una sorta di Tasmania europea. Se pensi alla sua posizione e provi a immaginarti solo il fatto che è la seconda isola del mediterraneo (è di poco meno estesa della Sicilia) ma che conta un milione e mezzo di abitanti, di cui più di un terzo concentrati solo nell’area metropolitana di Cagliari, ti rendi conto della sua particolare antropizzazione. Per me che vengo da una regione come l’Emilia Romagna in cui il modello urbanistico predominante è la città diffusa, con il suo accavallarsi confuso di centri storici, zone artigianali, aree commerciali, aree agricole e grandi infrastrutture viarie, è stato una specie di shock cominciare a fotografare in un posto in cui i paesi sono ancora ben definiti e circoscritti, e dove tra l’uno e l’altro c’è una campagna non ancora industrializzata o riserve naturali estese. Ad eccezione del nordest dell’isola, modificato profondamente dall’industria turistica, il resto della regione è tutto sommato in buono stato di conservazione. Infatti per cominciare questo nuovo lavoro ho dovuto un po’ cambiare spirito: se per realizzare il corpo di fotografie dal quale ho estrapolato la serie finita in The Flying Carpet (Mack 2017) facevo finta di essere un fotografo italo-americano di fine anni ’70, per questo in Sardegna mi sono invece dovuto mettere nei panni di un fotografo americano sempre degli anni ‘70, ma dell’ottocento però!”

Quali sono i tuoi riferimenti visivi?

“Ho sempre avuto ‘un pallino’ per la fotografia primitiva americana, sia di quella fatta durante la Guerra Civile che quella successiva delle grandi spedizioni geografiche nel selvaggio ovest, cercando di usare come riferimento visivo l’opera di autori remoti come Timothy O’Sullivan, George Barnard o Alexander Gardner, tanto per citare i più conosciuti. In Sardegna ho trovato il luogo dove sfogare questa passione e al tempo stesso approfondire la mia conoscenza di tutta quella fotografia che gli storici chiamano età del collodio umido. Se vuoi, la mostra di Large Glass a Londra organizzata da Charlotte Schepke, è un po’ la ciliegina sulla torta di tutto questo processo (o gioco) che sto compiendo: ho l’occasione di confrontarmi con un autore contemporaneo riconosciuto come Mark Ruwedel, anche lui con un profondo rispetto e dimestichezza con la tradizione fotografica “classica”, e non solo americana. Se guardi il suo ultimo libro pubblicato sempre con Mack, Quarzarate, che ha per soggetto i sets cinematografici utilizzati per i film in costume biblico girati in Marocco, si tratta chiaramente di un omaggio alla fotografia europea del XIX° secolo fatta in Medio Oriente.”

Come ti approcci al tuo lavoro nel quotidiano?

“Come dicevo all’inizio, non seguo un progetto fotografico particolare, ma lavoro in maniera molto istintiva cercando di avere la testa il più libera possibile da idee o piani preconcetti. Quando posso uscire a fotografare, esco la mattina presto e tendo a stare fuori il più a lungo possibile, caricando in auto tutta l’attrezzatura di cui dispongo in modo da essere pronto a risolvere i soggetti che mi capitano nella maniera più appropriata. Pratico una fotografia tradizionale, e quindi se sono più riflessivo e solitario utilizzo camere di grande formato con pellicole bianco e nero provando a perdermi nella campagne dell’oristanese (la zona in cui vivo in Sardegna) cercando qualche cosa di epico o significativo da fotografare. Se invece mi sento più socievole e meno concentrato mi fermo in un paese e lo percorro a piedi per qualche ora, con due fotocamere medio formato in spalla caricate con pellicola a colori, fotografando le cose più banali che incontro. In entrambi i casi, se non capita niente di nuovo, piuttosto che tornare a casa a mani vuote, torno a fotografare qualche cosa che ho già fatto, cercando magari di risolverlo meglio o tentando di fare delle piccole serie in sequenza. Come dice bene il fotografo Guido Guidi, una modalità impulsiva, compulsiva, tendenzialmente schizofrenica!”

Mark Ruwedel / Cesare Fabbri è visitabile fino al 5 luglio presso la Large glass gallery. (www.largeglass.co.uk)

Gaia Dallera Ferrario
https://www.instagram.com/gaiafe/

 

Cesare Fabbri è nato a Ravenna, nel 1971. Ha studiato fotografia con Italo Zannier e urbanistica allo IUAV di Venezia. Ha fatto una mostra personale alla Fondazione A Stichting, a Bruxelles nel 2017. Nel 2007 ha partecipato alla Biennale di fotografia e architettura di Stoccarda ed è stato selezionato per il premio Atlante Italiano 007 organizzato dal Museo MAXXI di Roma. Nel 2004 gli è stato assegnato il premio RAM e una borsa di studio HERA. Il suo lavoro è stato recentemente aggiunto alle collezioni del Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. Insieme a Silvia Loddo ha fondato “Osservatorio Fotografico” a Ravenna nel 2009, una piattaforma sperimentale per la ricerca sulla fotografia.

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