Dirigenti pubblici e mobbing: l’ultima sentenza della Cassazione e la necessità di un intervento urgente

Da Giovanni Graziano Manca riceviamo e volentieri pubblichiamo un intervento sull’ultima sentenza della Corte di Cassazione sul mobbing.

 

La Corte di Cassazione Sezione Civile (Lavoro) aveva già affrontato il tema del cosiddetto mobbing con una sentenza di qualche anno fa, la numero 22393/2012 del 10 Dicembre 2012. Il provvedimento giurisdizionale forniva del fenomeno una definizione semplice e illuminante:

“Per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.”

Con il pronunciamento del 15 maggio u.s. (sentenza numero 10037-2015) il consesso supremo torna sull’argomento e lo fa puntualizzando che ai fini del risarcimento per i danni patiti dal lavoratore è necessario che sussistano contemporaneamente i sette parametri che forniscono prova delle condotte mobbizzanti subite dallo stesso nell’ambito lavorativo. Nella sentenza viene rimarcato che “la Corte del merito pone a base del proprio decisum anche le risultanze della perizia, allegata agli atti, eseguita in sede penale da uno dei massimi esperti di mobbing che, esaminata la vicenda lavorativa della D.M. (la prestatrice di lavoro, n.d.r.) aveva riscontrato la presenza contestuale di tutti e sette i parametri tassativi di riconoscimento del mobbing “che sono l’ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l’andamento secondo fasi successive, l’intento persecutorio”, parametri questi di cui la Corte territoriale trova riscontro, come detto, nelle risultanze istruttorie.”

La sentenza numero 10037-2015 si inserisce in un contesto normativo, quello nazionale, in cui non esiste una legge specifica che disincentivi il fenomeno del mobbing.

La fattispecie concreta su cui la Corte si è ultimamente pronunciata riguarda una amministrazione pubblica (un ente locale) condannata a risarcire il danno alla salute e quello professionale patito da una impiegata a seguito delle varie pratiche persecutorie concretizzatesi sul posto di lavoro: la stessa era stata privata delle proprie mansioni ed in conseguenza di ciò emarginata e ‘spostata’ senza ragioni plausibili da un ufficio all’altro. L’impiegata, poi, veniva subordinata ad un collega che in precedenza risultava essere suo sottoposto e per giunta, pensate, veniva assegnata a un ufficio aperto al pubblico senza possibilità di poter lavorare, rendendo così ancor più dolorose le umiliazioni cui era stata assoggettata.

Lo ha rilevato anche Harald Age, docente universitario, uno dei maggiori esperti in materia nel nostro Paese, specializzato in Psicologia del lavoro e dell’organizzazione: ad essere più colpito dai fenomeni di mobbing è il comparto pubblico piuttosto che quello privato, in particolare nei settori della scuola, della sanità e dell’amministrazione pubblica.

Secondo dati ISPELS non recentissimi ma indicativi, anche se ‘a spanne’, di una certa situazione, una percentuale piuttosto elevata (che si aggira intorno al 71%) dei casi di mobbing si verificherebbe all’interno della Pubbliche Amministrazioni. Sempre l’ISPESL ha quantificato nel 62 per cento i casi di mobbing ai danni di persone con più di cinquanta anni e in una percentuale pari all’81 per cento del totale la presenza, tra i bersagli delle condotte ‘mobbizzanti’, di quadri e di impiegati. Da altre analisi svolte dall’Istituto citato risulterebbe che a esercitare il mobbing sarebbero per ben il 57,3 per cento i superiori, persone cioè dotate di una certa autorità, del prestatore di lavoro.

Come ha rilevato con linguaggio forse poco accademico ma certo assai eloquente il docente americano e professore di Scienza dell’ingegneria gestionale a Stanford Robert I. Sutton (e come peraltro spesso suggerisce l’esperienza personale quotidiana della maggior parte delle persone impegnate in una attività lavorativa), “Il potere genera stronzaggine”. Sutton sostiene che “quando qualcuno si trova in una situazione di potere, diventa cieco di fronte al fatto che sta facendo lo stronzo”, e che “Gli stronzi creano una sorta di ‘vuoto di civiltà’ che risucchia ogni stilla di calore umano e di cortesia e li sostituisce con la freddezza e il disprezzo”. E continua: “un numero imponente di studi dimostra che quando qualcuno si trova in una posizione di potere comincia a straparlare, a prendersi quello che vuole, a ignorare le parole e le esigenze altrui, a non tenere in considerazione le possibili reazioni dei suoi subalterni, a comportarsi in maniera scortese e, in generale, a vedere ogni situazione o persona come uno strumento per soddisfare i propri bisogni.”

La circostanza che le condotte persecutorie siano in percentuale altissima poste in essere all’interno della amministrazione pubblica da soggetti (dirigenti) abilitati al compimento di atti che hanno ricadute sulla qualità della vita della generalità degli utenti, sull’ambiente, sulle economie locali e sul benessere globale dell’intero Paese preoccupa, fa riflettere, indigna. A favorire gli abusi e i maltrattamenti sono spesso gli standard organizzativi scadenti degli enti pubblici, ma determinante in tal senso sono (sarebbe sufficiente, per averne contezza, leggere quotidianamente le cronache giudiziarie che vedono coinvolti negativamente uffici e dirigenti pubblici, anche nella nostra isola) è l’infimo livello di cultura della legalità da parte di molti responsabili della cosa pubblica. Questi ultimi sono spesso dotati di scarsa perizia e/o agiscono in accordo fraudolento tra loro o con i peggiori elementi della classe politica. A livello nazionale il caso Mafia Capitale è solo uno degli ultimi esempi di malaffare amministrativo criminale cui abbiamo assistito.

L’incapacità di gestire e di organizzare e la scarsa moralità così diffuse tra i dirigenti pubblici generano sperperi di risorse che ricadono quasi sempre sulla collettività intera determinando la contrazione dei livelli di qualità nell’esistenza di ogni singolo individuo.

Ci si chiede: quanti sono gli episodi di denuncia da parte di impiegati o funzionari onesti, scrupolosi e preparati, di abusi di vario genere, di irregolarità amministrative, di dispendio di denaro pubblico, di favoritismi vergognosi nell’assegnazione di incarichi pubblici che sfociano, all’interno delle amministrazioni, in quei comportamenti che la Corte di Cassazione ha definito ‘ostili’ e in pratiche criminali che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica da cui spesso consegue la mortificazione morale e l’emarginazione di molte persone che lavorano con onestà?

Fornire con urgenza risposte concrete a questa domanda e adottare normative e atti regolamentari specifici in materia dovrebbe essere imperativo morale dell’attuale classe politica nei vari livelli di governo del paese. Sarebbe un atto di civiltà e di giustizia di cui si avvantaggerebbe anche l’esausta economia italiana.

 

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