L’impresa, la Cenerentola dell’economia sarda. Un bilancio dei danni

di PAOLO FADDA*

«Da un po’ di tempo i temi dell’impresa contano poco, quasi zero. È un paradosso perché i posti di lavoro di cui abbiamo assolutamente bisogno possono venire solo dalle imprese, non certo dalla spesa pubblica … Duole dirlo, ma l’impresa, pur rappresentando la spina dorsale della società italiana ed il vero collante di molte comunità, appare nell’anno di grazia 2018 dimenticata, messa nell’angolo…».
Lo scritto è tolto da un editoriale di Dario Di Vico, pubblicato nelle scorse settimane sul Corriere della sera, dal titolo assai emblematico di “L’impresa rimossa dai partiti”. A suo giudizio, a questo fatto avrebbero contribuito anche i colpevole silenzi e l’agnosticismo delle rappresentanze delle categorie imprenditoriali, a cui sarebbe spettato di “far sentire la propria voce”, memori d’essere state un tempo “il sale della società civile” e, con i vari Costa, Agnelli e Carli, autorevoli ed ascoltate parti sociali.

Ora, seppure riferita alla situazione nazionale, questa diagnosi può essere riportata, paro paro, al caso sardo, dove l’impresa – con le sue esigenze e la sua stessa esistenza – non solo è stata messa all’angolo, ma è addirittura sparita dai programmi della politica regionale. Pur nell’esigenza, divenuta sempre più pressante, di creare nuova occupazione. Ed anche qui da noi fanno notizia i silenzi di Confindustria, Confapi e di quant’altre organizzazioni isolane dovrebbero sostenere le ragioni e le esigenze del mondo produttivo. Tanto ignorato da non comparire, neppure da comparsa, nell’ultimo plurimilionario “piano” varato dalla Giunta regionale dove i protagonisti saranno gli enti locali con i loro “microlavoretti” destinati ad esaurirsi in breve tempo, consumando, ma non creando nuova ricchezza, con quelle milionate di euro.

C’è un dato che testimonia questo andamento verso una microdimensione: nell’ultimo trentennio il numero medio dei dipendenti nelle imprese industriali è passato da 5,3 a 3,1 ed il loro fatturato medio è calato tra il 25 ed il 30 per cento. Ancora, nel settore dei lavori edili, fatto eguale a cento il totale degli appalti pubblici assegnati in un anno, le imprese sarde nel 2016 ne avrebbero acquisito direttamente appena due, con una impressionante retrocessione dai quasi cinquanta degli anni ’70-’80. Cioè, oggi l’80-85 per cento delle nostre imprese edili sono solo delle subappaltatrici di società continentali. In effetti, fra le prime 100 società sarde per fatturato nello stesso anno, vi compare, al settantaquattresimo posto, una sola impresa edile.

C’è dunque un pericoloso andamento di retrocessione nel nostro mondo delle imprese, quasi che fare l’imprenditore sia divenuto niente più che un impegno-rifugio, assolutamente occasionale, non diversamente da come, negli anni ’60, l’impiegato pubblico apriva un negozio a nome della moglie o dei figli per arrotondare il bilancio familiare. Da qui, come indicano le statistiche, un esasperato turn-over di imprese che nascono e muoiono in spazi temporali assai ristretti e, spesso, soltanto per specifiche occasioni.

Le cause potrebbero essere diverse, ed anche controverse, anche se un denominatore comune lo si può individuare in quel vento anti-industrialista che spira sempre più impetuoso dalle nostre parti. Portato dalla nostra cultura autoctona, rimasta legata ai miti agresti d’una immaginifica e mai esistita terra d’Esperia, senza che nessun argine frangivento lo abbia fermato. Gli attuali esponenti locali dell’imprenditoria – gli eredi dei Pernis, dei Zedda, dei Capra e dei Trois –, sono divenuti sempre meno protagonisti della vita economica e sempre più succubi dell’esuberanza, anche culturale, dei laudatores temporis acti, degli accaniti difensori di quel vecchio e ritrito richiamo ancestrale del torraus a su connotu e dell’andaus contra su nou.

Eppure l’esperienza insegna che senza una ripresa delle produzioni industriali non vi potrà essere il rilancio dell’economia e dell’occupazione. Occorrerà quindi predisporre delle strumentazioni e dei sostegni che permettano di recuperare quel che s’è perduto purtroppo in Sardegna negli ultimi vent’anni, cioè quasi la metà della produzione di beni. Oltre a una decina di migliaia di posti di lavoro. Con un Pil che ha perduto dal 2008 ad oggi circa dodici punti percentuali (il doppio delle Marche e dell’Abruzzo).

Per valutare attentamente questa situazione, può essere importante ricordare come il 48 per cento delle imprese nate nel 2010 è sopravvissuta solo fino al 2016, segno incontestabile di un ambiente irto di difficoltà, dove anche l’accesso ai sostegni creditizi è divenuto sempre più ostico, soprattutto alle piccole imprese (secondo Bankitalia la flessione dei prestiti concessi sarebbe del 6 per cento).

Tutto ciò ha fatto sì che si sia formato un forte scollamento tra il tessuto sociale e il mondo della produzione. Troppo spesso l’industria ha dovuto camminare su terreni impervi, fra crescenti diseconomie strutturali della società sarda (dalle difficoltà di accesso al credito agli alti costi dei trasporti e dell’energia ed alle impreparazioni professionali delle risorse umane) e senza che la politica le fornisse un sostegno adeguato di regole e di interventi per poter crescere nell’innovazione e per attrezzarsi in modo da affrontare mercati sempre più difficili e distanti.

Appare quindi necessario pensare ad una politica industriale fondata su tre pilastri fondamentali: Impresa, Competitività, Lavoro. Perché quel che serve alla ripresa sono delle imprese competitive ed efficienti che assicurino nuovi e stabili posti di lavoro. E c’è la necessità che la Sardegna faccia sistema, collegando strettamente i tre settori fondamentali della sua economia produttiva (industria, agricoltura e turismo) in una filiera virtuosa che ne rafforzi i collegamenti e le interdipendenze. Occorre cioè che si industrializzi l’agricoltura (nelle sue attività e nei suoi collegamenti) e che il turismo, con i suoi numeri importanti, ne divenga mercato e volano di diffusione. Attuando una nuova e differente metodologia d’intervento. Occorre prendere atto che l’accesso ai benefici di sostegno e di rilancio attraverso i c.d. “bandi di selezione”, non solo non ha prodotto alcun effetto positivo, ma anzi ha aggravato, per via delle loro criptiche regolamentazioni, gli eccessi di discrezionalità e di favoritismi, accentuati dal proliferare di una rete di consulenti amici, dei veri e propri paraninfi da dover utilizzare per riuscire ad ottenerne l’accesso.

Per il rilancio dell’impresa, come elemento centrale della ripresa, occorre introdurre quindi una semplificazione concettuale degli interventi, operando l’accesso ai benefici in maniera automatica. Attraverso la detassazione o con dei vantaggi premiali al verificarsi di interventi migliorativi (nell’occupazione, nell’innovazione, negli investimenti). Sono poi questi gli obiettivi principali che deve porsi una valida politica industriale che ridia vitalità ad un settore, questo dell’industria, che soffre in Sardegna di un precoce e triste invecchiamento.

Per quel che richiedono oggi le imprese si tratterebbe di individuare un insieme di interventi mirati a rafforzarne la struttura ed a crearne le condizioni per migliorare la loro competitività sui mercati e per dare spazi maggiori e più duraturi al lavoro. Per far questo impegno, decisamente riformista, occorrerebbe del coraggio e dell’avvedutezza che la politica d’oggi non pare disponga, e, forse, non ne ha neppure la convinzione, dato che continua a inseguire, con mille rappezzi, solo il contingente. Per concludere, il sistema-Sardegna continua ad essere inadeguato ed impreparato alle nuove sfide dell’economia e dei mercati, con l’impresa sempre più la cenerentola per una politica miope e inconcludente. Ed è ben triste e sconsolante doverlo scrivere.


  • Economista, saggista, già dirigente del Banco di Sardegna

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