Non finito sardo, l’architetto Roberto Virdis: “Abbiamo bisogno di educare alla bellezza”

La bruttezza del paesaggio sardo si chiama non finito: sono le costruzioni, a migliaia nell’Isola, figlie dell’incuria, del cattivo gusto, del degrado, spesso della crisi economica. Ma non solo: il non finito sardo è anche un modo di costruire qui e ora, più attento all’esigenza del presente che alle rifiniture che resteranno per sempre. Architetture pubbliche e private che spesso sono ultimate all’interno, perfettamente abitabili e confortevoli, di cui si rimandano i dettagli esteriori a data da destinarsi. Un preciso campionario degli orrori isolani (leggi) si trova nella pagina Facebook ‘Non finito sardo’. Il non finito ha una data di inizio: negli anni Ottanta, gli anni del boom economico e della nascita dei poli industriali che hanno promesso il benessere in Sardegna, i privati investono nel mattone.

roberto-virdis“Si costruisce soprattutto per i figli, con l’idea di lasciare una piccola eredità immobiliare per il futuro – precisa Roberto Virdis (nella foto a sinistra), architetto di Sedilo. – Ma è stato un benessere illusorio, dato che dopo poco tempo è arrivata la crisi nell’industria e molti operai sono finiti in cassa integrazione: le case iniziate con l’idea di essere terminate a poco a poco negli anni successivi sono rimaste, in alcuni casi, inconcluse, e molti giovani sono emigrati per studio e lavoro lasciando gli immobili vuoti. Io stesso vivo in una casa iniziata dai miei genitori, un’eredità pesante da rifinire dati i costi attuali dei lavori diversi da quelli dell’epoca in cui fu concepita”. Non è solo un problema di soldi: mentre in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, esistono leggi precise sulla chiusura dei lavori edilizi, in Italia i cantieri possono restare aperti a lungo. Anche per venti, trent’anni.

Il non finito, secondo l’architetto Virdis, è anche un brutto segnale di individualismo: “Quando si pensa a finire la casa internamente, magari con rifiniture ricche e curate trascurando l’esterno, allora significa che non si pensa alla comunità in cui si vive. Ci sono tantissime case abitate e lasciate grezze fuori. E spesso le amministrazioni chiudono un occhio”.

Non tutte però restano indifferenti al brutto dilagante: il sindaco di Nughedu Santa Vittoria Francesco Mura ha stanziato nel 2016 60mila euro per contributi a chi rifinirà le case lasciate a metà, con l’obiettivo di rendere il paese più bello e accogliente. “Non sono convinto che vendere le case a un euro sia una strategia efficace sul lungo periodo, mentre gli incentivi per curare e rifinire le architetture sono iniziative utili. In generale credo che il compito di educare al bello sia della politica, che lo faccia con incontri pubblici, contributi e con il buon esempio”.

Il non finito, che generalmente è considerato il brutto per eccellenza in architettura, è comunque in alcuni casi il male minore: “C’è un ‘finito’ che spesso, per la totale mancanza di grazia e armonia, è ancora peggio – prosegue Virdis – e soprattutto è di difficile recupero”. Da nord a sud dell’isola sono tantissimi gli esempi di costruzioni che deturpano gli scenari urbani: il cemento e i mattoni a vista sono elementi universalmente considerati sciatti, ma ci sono anche facciate dipinte con spugnature colori pastello (“A Terralba è un trionfo di rosso, azzurro e pesca talvolta stesi con spugnatura”, assicura l’architetto di Sedilo), piani costruiti uno sull’altro senza criterio, grandi portelloni in alluminio che si affacciano sulle strade principali dei centri.

L’abuso delle serrande nelle case private è chiamato, ironicamente, “serrandismo” dai gestori della pagina Facebook ‘Non finito sardo’: “Ci sono paesi del Nuorese dove la via principale è costellata di grandi saracinesche inserite nella facciata delle abitazioni – sottolinea Virdis -. È un segnale di come sia cambiata la concezione urbanistica e il modo di immaginare le case private: prima al piano terra si usava un piccolo magazzino per gli attrezzi, dagli anni Ottanta si è iniziato a costruire grandi rimesse per trattori e altri mezzi che hanno rovinato l’aspetto delle strade”.

Il cattivo esempio arriva anche dalle pubbliche amministrazioni, che spesso firmano architetture dalle linee discutibili come il centro didattico ambientale di Oniferi S’Infurcau (nella foto di Maurizio Serra, in alto), iniziato negli anni Novanta e mai ultimato. O il museo archeologico di Quartucciu, che insieme al Polo Bionaturalistico e Orto Botanico di Sassari è stato inserito dal critico d’arte Vittorio Sgarbi tra le opere nazionali più brutte con l’etichetta #italiasfregiata.

Francesca Mulas

 

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