CONSUMO ERGO SUM

Questo è il mio testo di postfazione che chiude il volume ‘Consumo’ di Simone Sbaraglia, terza uscita della collana ‘Sguardi sul mondo’ edito da Emozioni fotografiche, presentata da Scatti di Nervi qualche tempo fa (cliccare qui). Non c’è molto da aggiungere per un lavoro fotografico che è un’occasione di riflessione su una società fondata sul consumo che nasconde un vuoto di valori profondo.

Non sempre l’atto di fotografare è un gesto esibito, la storia racconta di tanti fotografi furtivi che, per scelta o per necessità, nascondono la fotocamera per celare l’intenzione, le manovre di composizione e il momento del fermo immagine. Mi viene in mente Walker Evans con i ritratti dei passeggeri della metropolitana di New York realizzati, alla fine degli anni ’30, con una piccola Contax nascosta sotto il cappotto. Penso ai tanti fotografi di guerra, furtivi per necessità, ben consapevoli che una fotocamera nascosta può salvarti da una pallottola. Poi ci sono i fotografi di animali selvatici che devono eludere la loro naturale (e sempre giustificata) diffidenza nei confronti dell’uomo.

Ma Simone Sbaraglia, fotografo naturalista di fama mondiale, non avrebbe mai immaginato che è più semplice fotografare i draghi di Komodo o i primati delle foreste equatoriali che riuscire a strappare qualche immagine di esemplari umani nella giungla di vetrine dei centri commerciali. In questi luoghi, che l’autore descrive come mistici e alienanti, il fotografo ha vita dura. Prova a fotografare alla luce del sole ma è prontamente bloccato dai guardiani del tempio con le divise da vigilantes o dai sacerdoti officianti, i negozianti, distribuiti nelle varie scintillanti cappelle del sacro pellegrinaggio. Prova candidamente a spiegare le sue buone intenzioni ma inutilmente perché, anche quando non è accompagnato dal cartello, il divieto è comunque tacito ed intransigente. Allora prova a fotografare tenendo la macchina bassa, sfoggia con nonchalance anche il “no look”, gesto celebrato negli stadi e repertorio di calciatori dotati di classe cristallina: guardare da una parte e passare la palla dall’altra. Ma lo stesso gesto tradotto in fotografia non ottiene gli stessi consensi di pubblico. Alla fine Sbaraglia si rassegna a fotografare alla cieca e di nascosto come Walker Evans, con cui condivide quell’idea critica verso una società dei consumi che il grande fotografo americano rappresentava con incombenti manifesti pubblicitari, metafora di una ideale società del benessere in drammatico contrasto con la miseria degli ultimi che un sistema così organizzato fatalmente produce.

Mi sono sempre interrogato sul senso del divieto di scattare fotografie in questi non-luoghi del consumismo sfrenato senza mai trovare una risposta soddisfacente. Sembra un paradosso: tutto è in bella mostra, si può guardare, desiderare, toccare, indossare, comprare ma non fotografare. I commercianti dicono che gli astuti clienti fotografano gli articoli agognati per cercarli più comodamente nei siti di commercio low-cost sparsi sul web. Ma quei divieti erano già in vigore ben prima che l’e-commerce muovesse i primi passi. Altri parlano di protezione dallo spionaggio commerciale di chi potrebbe fotografare gli allestimenti e i prezzi per copiarli e fare concorrenza sleale. Motivazioni decisamente deboli e poco convincenti. Messi alle strette tutti alla fine si rifugiano nel solito mantra: I centri commerciali sono spazi privati e ciascuno è libero di stabilire le regole.

Ma cosa temono davvero i sacerdoti del tempio del consumismo? Forse non lo sanno ma temono i fotografi come Simone Sbaraglia, i “diversamente pensanti”, determinati a rappresentare in maniera critica un mondo a colori che nasconde una realtà in bianco e nero. Il reportage proibito di Simone è uno sguardo spietato, giocato su un’estetica dei segni fatta di specchi scintillanti, di vetrine che riflettono un mondo di vuote apparenze dove il dilemma non è più “essere” o “avere” ma esistere (in quanto consumatore) o non esistere. L’uso consapevole dei tempi lunghi e del mosso omologa un’umanità di falene impazzite in continuo movimento, attratte dalle luci delle vetrine, alla ricerca dell’anestesia dell’effimero che è la rassicurante adesione ad una società che ha annientato tutte le ideologie alternative. Un effetto di smarrimento dove i manichini incombono e si confondono con le marionette del teatrino dei continui nuovi “must”, imposti dal burattinaio dio-denaro che tira i fili di un inquieto e sapientemente alimentato bisogno di “esistere”, di conformarsi,  di essere fedeli alla religione officiata dai sacerdoti del marketing globale.

Cogito ergo sum, penso dunque sono, rifletteva Cartesio diverse centinaia di anni fa. Ma oggi il sistema capitalista non ha bisogno di individui pensanti ma solo di consumatori ubbidienti. Una società che troppo spesso si affida indolente a governanti che non si allarmano più di tanto se le disuguaglianze sociali diventano un baratro, che se ne fregano dei clochard (purché non disturbino la vista durante lo shopping natalizio) che scrollano le spalle se diminuiscono le persone che leggono almeno un libro nella loro vita o se gli ignoranti si moltiplicano come i pani e i pesci del Vangelo. L’allarme rosso scatta per tutti quando calano i consumi, l’unico, indiscusso e supremo indicatore del benessere di una società malata.

Enrico Pinna

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