Il Pd sull’orlo del baratro

“Suicidio” era la parole ricorrente nelle prime reazioni degli esponenti del Partito democratico dopo lo shock della bocciatura di Romano Prodi, col seguito inevitabile delle dimissioni del segretario Pier Luigi Bersani. Il quale, nel suo drammatico sfogo notturno, ha chiarito che quella parola non è la più adatta a definire la situazione. Perché quanto è accaduto ha evidentemente dei responsabili. Il Pd, secondo il suo ormai ex segretario, non si è suicidato ma è stato ucciso da un centinaio tra deputati, senatori e grandi elettori che hanno tradito la parola data. Uno su quattro. Quasi un altro partito.

I cellulari dei membri della delegazione sarda sono rimasti spenti a lungo dopo lo shock della bocciatura di Prodi. Ma non perché fosse in corso qualche riunione. Per oltre un’ora i deputati e i senatori isolani, al pari dei loro colleghi delle altre regioni, hanno vagato tra Montecitorio e la piazza antistante, in piccoli gruppi, interrogandosi sul da farsi, in attesa di notizie. Finché non è arrivata la convocazione per l’assemblea che è poi cominciata nel solito cinema Capranica alla 22 e che proseguirà stamani. Alle 10 comincia la quinta votazione. Un atto puramente formale. A parte i voti del Movimento 5 Stelle per Stefano Rodotà e quelli di Scelta civica per Rosanna Cancellieri – e a parte un certo prevedibile numero di franchi tiratori – le “insalatiere” si riempiranno di schede bianche.

Il cellulare di Caterina Pes, che la mattina aveva annunciato con soddisfazione la scelta ‘unanime’ di Romano Prodi ha ripreso a squillare verso le 21. “Cosa si può dire, che ci sentiamo bastonati? Molto di più, molto peggio. Siamo qua, sparsi, in piazza Montecitorio in attesa di aver qualche notizia. Abbiamo bruciato Marini, e ora Prodi. Non c’è un capo dello Stato, non c’è nemmeno un governo, non sono neanche partite le commissioni. Non c’è nulla…”

A quanto pare il “gruppo sardo” questa volta non si è diviso. Ma chissà. Perché se nel caso del no a Marini il dissenso era stato pubblico (infatti si conoscono i nomi di quanti hanno votato contro: Caterina Pes, Romina Mura, Giovanna Sanna, Giampaolo Diana e Luigi Manconi), nel caso di Prodi è stato organizzato segretamente e scientificamente. Oltre cento voti contrari non possono che essere il frutto di un’azione coordinata. E qualche indicazione viene fuori da come questi voti si sono distribuiti.

“Non ho le prove – dice un parlamentare che per ovvi motivi chiede di restare anonimo – ma i maggiori indiziati sono i dalemiani e gli ex popolari. I primi perché in realtà non hannno mai rinunciato alla possibilità di vedere il loro leader al posto di Napolitano, i secondi perché non hanno digerito la bocciatura di Marini. Di sicuro c’è stata una regia precisa. Per esempio, i voti in più che sono andati a Rodotà corrispondono grosso modo a quelli di Sinistra ecologia e libertà. Molto probabilmente l’idea era quella di attribuire a Sel una parte delle responsabilità nella trombatura di Romano Prodi. Solo che Vendola ha capito quel che stava accadendo e ha detto ai suoi di ‘firmare’ le schede, cioè di indicare Prodi come ‘R. Prodi’. In questo modo si è visto che Sel non ha tradito, e si è svelato il misero trucco ideato dai traditori. Traditori doppi, diciamo. Perché non solo hanno votato nascostamente contro le indicazioni del partito ma hanno cercato di trasferire l’accusa di tradimento su un partito alleato. Una vergogna”.

Il Pd deve ora decidere rapidamente cosa fare. Tre le strade: confluire (come già deciso da Vendola) sul nome di Stefano Rodotà; azzerare tutto e andare alla ricerca di un nuovo candidato che possa raccogliere consensi ampi (ma è la strada già percorsa in modo fallimentare con Franco Marini) o addirittura implorare Giorgio Napolitano di togliere le castagne dal fuoco al suo partito prorogando il mandato. Quest’ultima ipotesi, benché auspicata da molti, appare difficilmente praticabile: Napolitano ha già detto in più occasioni che intende andarsene alla scadenza.

L’ipotesi Rodotà presenta non pochi rischi. Il primo – dopo la vicenda Prodi – è che il Pd si spacchi fino al punto di non riuscire a far confluire sul candidato del M5S un numero di voti sufficiente a garantirne l’elezione. Preoccupazione ‘tecnica’ che si aggiunge a quella politica di consegnare nei fatti a Beppe Grillo la leadership della sinistra. Torna dunque a diventare prevalente l’ipotesi del ‘nome condiviso’. Se non altro per chiudere al più presto la partita del Quirinale. Ogni giorno che passa, dicono i sondaggi, si traduce in una emorragia di consensi per il Partito democratico.
Il gruppo dei grandi elettori sardi è tra i più preoccupati. La campagna elettorale per le prossime elezioni regionali è nei fatti già cominciata e la caduta di Bersani fa saltare i già traballanti equilibri interni. Si teme il ritorno alla guerra per bande.

N.B.

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