Bergonzoni: “In Sardegna hanno stuprato il concetto di lavoro. La ricetta contro la malapolitica è solo la cultura”

Cagliari, Festival della filosofia edizione numero due. Cronaca di un successo annunciato. La platea del teatro Massimo è eccitata e vociante, più che a un incontro sul tema dell'”Identità, verità e finzione”, sembra di partecipare a una festa. C’è  l’assessore Enrica Puggioni che con l’idealismo tedesco si diverte alquanto, il professore Remo Bodei che oggi, sabato 4 maggio, alle 17.30 disserterà su “L’Ultimo Elefante”, c’è la padrona di casa Roberta De Monticelli che più che una filosofa sembra una sofisticata attrice e un’infilata di studenti, coppie e tante teste canute. A inaugurare i dialoghi filosofici, in scena fino al 6 maggio, ieri è toccato ad Alessandro Bergonzoni. “Uno che fa ridere il cervello”, hanno detto. Confermiamo. Per chi scrive, soprattutto, una pillola contro il malumore.

“Urge” è il titolo di uno spettacolo che sta portando in giro per l’Italia. Partiamo da qui: cosa urge oggi a Bergonzoni?
Urge non dover più dividere la filosofia dalla vita, l’arte dal lavoro, la morte dal vivere. Abbiamo questa folle depravazione di dire delle cose e poi farne delle altre: oggi si va al festival della filosofia e poi di sera a casa ci si rimbambisce fino a tardi davanti alla tv. Urge un tuffo nella complessità. Urge non doversi bastare. Urge restare in attesa di ciò che non si conosce, che non si capisce.

E cosa urge, invece, a un territorio sfiancato dalla crisi come la nostra isola?
La Sardegna è una regione disseccata da una concezione “altra” dell’essere umano, della politica, dove non si è ancora capito che il lavoro non è fatto di numeri, ma di persone, di famiglie, di ambiente. Chi fa le leggi è privo della conoscenza dell’altro e dunque ha gestito male il tema economico, sociale, civile. Ancora per molti, il civico è il numero stampato vicino a una porta. Manca una poetica delle amministrazioni, delle fabbriche, delle scuole. Perché chi ci amministra non è mai un letterato? Se il politico fosse prima di tutto un individuo colto non sarebbe mai arrivato a stuprare il concetto di lavoro. Ci vuole una grandissima preparazione culturale per rispettare la Costituzione. Se non sentiamo dentro di noi il governo, il Parlamento, l’Europa, a cosa vale scendere in piazza, salire sui silos o spaccare in terra gli elmetti? Possiamo fare tutte le manifestazioni del mondo, al massimo otterremo una pacca sulla spalla. Senza la nostra piazza interiore, non otterremo mai nulla.

Insomma, siamo condannati alla malapolitica?
No se si riparte subito dagli asili, ma dobbiamo farlo adesso per riuscire a vedere i risultati fra un paio di generazioni. La protesta deve diventare educazione, che non vuol dire ascoltare le lezioni dei filosofi, sciacquarsi la bocca con la cultura-colluttorio, e poi prendere la macchina e buttare la carta delle caramelle dal finestrino. Dobbiamo iniziare ad applicarci per imparare il mestiere dell’uomo. Oggi si fanno mille mestieri: l’operaio, il padre, il barista. Mai quello di uomo.

Eppure, oggi, il malcontento deborda e nelle piazze, la voce si leva sempre più alta.
Possono urlare quanto vogliono, non serve. L’ho detto anche a Grillo. Non si diventa onesti se non si ha l’etica dentro. Più che per la fedina penale dei nostri governanti sono preoccupato per la loro menomazione politica, per la loro cartella clinica, perché certi discorsi sono sinonimo di una fenomeno patologico. E la ricetta per guarire è solo la cultura.

Donatella Percivale

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