Chessa ha un’idea di cultura sarda più vicina alla carnevalata che non all’Isola reale

Andrea Tramonte

La cultura sarda è launeddas e canto a tenore e non “jazz e tromba”. Così l’assessore regionale al Turismo, Gianni Chessa. E quindi se vogliamo interpretare il suo pensiero, non è cultura sarda neanche la chitarra elettrica, e figuriamoci se un sintetizzatore può rientrare all’interno della categoria. Se vogliamo essere precisi nemmeno la chitarra sarda preparata di Paolo Angeli (che pure è “sarda”, secondo il suo inventore), perché anche se il musicista di Palau attinge a piene mani da alcune importanti tradizioni musicali dell’Isola, poi nella sua ricerca ingloba influenze di altri luoghi – in generale mediterranei – e contesti sonori diversi, anche d’avanguardia. Insomma, tutto ciò che non è strettamente legato a una tradizione rigida considerata come immutabile, secondo la logica dell’assessore che ha risposto al jazzista Paolo Fresu, non rientrerebbe nel canone della “cultura sarda”. Che quindi si riduce a pochi strumenti tradizionali, al canto a tenore, all’abito sardo, al Carnevale: in generale al mondo del folclore.

Spiace che a guidare la logica dell’erogazione dei fondi dell’assessorato al Turismo per le manifestazioni culturali sia un’idea simile di cultura in Sardegna. Ridotta a carnevalata in costume – sia detto rispettosamente: qui non si parla delle tradizioni ma dell’utilizzo che se ne fa – a uso e consumo dei turisti. L’idea che chi arriva nell’Isola debba essere accolto da donne in costume sardo e che anche i camerieri – secondo la logica dell’assessore – debbano vestirsi in abiti tradizionali in servizio al ristorante – che ovviamente deve servire “porceddu” e malloreddus – rientra in questa logica esplicitata più volte. Dovremmo appiattirci all’immagine che pensiamo abbiano di noi i turisti. Una popolazione esotica – e ovviamente ospitale – e non una comunità di persone con tradizioni importanti ma anche pienamente calate nella contemporaneità, che propone una cultura varia, complessa, “di oggi”, che non dimentica il passato ma riesce a raccontare l’oggi e aprirsi al futuro. Dietro quel pensiero c’è – insomma – un’idea autocolonizzata di identità sarda.

Ma proviamo a riflettere invece su come la cultura possa essere veicolo di turismo. Pensare che a chi viene in Sardegna debbano interessare esclusivamente il canto a tenore, le launeddas e il Carnevale significa non capire come la cultura in senso ampio sia in grado di muovere viaggiatori, passioni, idee. E pure soldi. L’esempio del Time in Jazz di Berchidda è importante ma non il solo. E la cultura in senso ampio, che mette in connessione piccoli centri dell’Isola con il mondo, artisti sardi e stranieri, è in grado di attirare turisti motivati e anche di lasciare il terreno migliore, più ricco e vivo, arricchendo il “turista” e pure le comunità locali, anche di valori immateriali in grado di spingere l’Isola verso il futuro.

In un romanzo dell’antropologo Giulio Angioni, Assandira – poi diventato anche un film di Salvatore Mereu – c’è la denuncia forte di una simile deriva “identitaria” che diventa esclusivamente uno spettacolo per intrattenere i turisti. Nell’agriturismo che dà il nome all’opera la tradizione agropastorale sarda diventa una messinscena che serve a far divertire gli ospiti. E l’anziano pastore vede la sua storia sempre più oltraggiata e ridicolizzata, fino al drammatico epilogo finale. Vogliamo una Sardegna che sia consapevole del suo passato, della sua storia e delle sue tradizioni, ma anche un’Isola che non si identifica solo con quello. Che vive nel presente e guarda al futuro. Senza ridursi a una rappresentazione ormai vuota solo per solleticare il “turista” alla ricerca di facili esotismi.

Andrea Tramonte

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