Primarie, l’aspirante governatore socialista vuole la crescita felice

L’uomo col garofano ha quarant’anni (compiuti a giugno), un lavoro da economista (fa progettazione finanziaria per enti pubblici e aziende private), presiede un consorzio d’imprese (si chiama Terre Vive) e ha fede nella rottamazione. Lui è Simone Atzeni, il socialista delle primarie, lanciato nell’arena elettorale dalle federazioni sarde del Psi. Accordo unitario per provare a sognare. Ancora. Al voto si va il 29 settembre e se Atzeni dovesse fare il colpaccio alle urne, «per tre anni di fila il costo del lavoro verrebbe tagliato di cinquanta punti», assicura. E di certo «la Sardegna non continuerebbe a importare il 70 per cento dei prodotti alimentari». Lo slogan del socialista è evocativo: “La storia siamo noi, scriviamola insieme”.
Atzeni, fino a oggi la storia della Sardegna chi l’ha scritta?
«Una classe politica interessata unicamente a perpetuare le proprie rendite di posizione».
Lei vuole il rinnovamento, partendo dalla Zona franca del lavoro. Di questi tempi le defiscalizzazioni vanno molto di moda, anche se non ci sono i soldi per coprire il minor gettito che la Regione incasserebbe.
«Le risorse per ridurre il cuneo fiscale sull’occupazione ci sono eccome. Lo Stato ha un debito enorme con la Sardegna, per la famigerata Vertenza Entrate ancora da completare: per almeno sei anni alla nostra Isola vanno restituiti 800 milioni di euro all’anno, e fanno 4,8 miliardi. La Zona franca del lavoro sarebbe abbondantemente coperta, visto che dai nostri calcoli ne costerebbe 2,7».
Al momento la Vertenza Entrate è arenata.
«Ma noi la riprenderemo con maggior vigore».
Facciamo un esempio di taglio al cuneo fiscale.
«Oggi per ogni mille euro netti che il dipendente di un’azienda privata porta a casa, il datore di lavoro ne sborsa 1.850. Non è ragionevole. Ecco, con la Zona franca sull’occupazione si può arrivare a 1.350 euro. Si risparmierebbero cinquecento euro per ogni busta paga».
Ci sono esperienze felici di Zone franche sul lavoro?
«Ce n’è stata una in Francia. Meno bene è andata in Gran Bretagna, ma solo perché lì alla riduzione del cuneo fiscale venne affiancata quella dell’Iva».
Lei non è favorevole all’azzeramento dell’imposta sul valore aggiunto?
«Io non condivido il modello di Zona franca integrale proposto dal presidente Cappellacci».
Perché?
«Tagliando l’Iva, per ogni euro speso se ne incasserebbero 0,7. Con la Zona franca sul lavoro, a fronte di un euro investito, ne entrerebbero tra 1,2 e 1,3. Mi pare che la differenza tra le due proposte sia sostanziale quanto a effetto moltiplicatore sul Pil (Prodotto interno lordo)».
Lei vuole defiscalizzare anche l’agricoltura.
«Non c’è altro modo per rilanciarla. La Sardegna importa il 70 per cento dei prodotti alimentari che consuma. Un’assurdità, se pensiamo che il 50 per cento delle terre potenzialmente produttive sono incolte. Oggi, nella nostra Isola, agricoltura e zootecnica assorbono un milione di ettari. Ma di questi 613.500 sono destinati a pascolo e prato, ovvero hanno un bassissimo valore aggiunto».
C’è un modo perché questi terreni producano ricchezza?
«Bisogna potenziare le coltivazioni più redditizie, puntando sulla viticoltura e la produzione di olio. Le terre per il pascolo possono avere un alto valore aggiunto, solo quando dal bestiame si ricavano formaggi di qualità».
Nel suo programma da aspirante governatore ci sono anche i distretti produttivi. Le imprese hanno davvero l’obbligo di associarsi per sopravvivere nel mercato globale?
«È imprescindibile che lo facciamo: su tutto avrebbero un più facile accesso al credito e pagherebbero meno le materie prime».
Come si costruiscono i distretti produttivi?
«Se si guarda al modello emiliano o a quello veneto degli anni Settanta, è necessaria la prossimità tra aziende. Ma questo dipende da cosa si produce. Nel caso sardo, non è necessario che le imprese agricole o zootecniche siano vicine. Basta rifarsi al modello del Grana Padano o del Parmigiano Reggiano, o dei prosciutti San Daniele e Parma. Noi, erroneamente, crediamo che vengano prodotti in un’unica azienda. Invece no: quei nomi sono semplicemente dei marchi usati in un circuito di imprese, anche lontane tra loro».
La magia dei distretti dove sta?
«Nel sapere rinunciare a una fetta del proprio potere decisionale per entrare in una rete. Io credo che si possa cedere un pezzetto di sovranità aziendale, quando le possibilità di guadagno sono maggiori. Del resto, se i produttori di quei formaggi o di quei prosciutti stanno dentro i distretti, vuole dire che ne traggono un vantaggio economico. Ma in Sardegna si ha scarsa propensione a fare sistema».
Energia: lei punta tutto sulle rinnovabili.
«Con una premessa: la priorità è scardinare gli oligopoli privati che fanno il bello e il cattivo tempo. Ma, soprattutto, impongono tariffe elevatissime».
Alla svolta come si arriva?
«Dobbiamo agganciare intanto il soddisfacimento del nostro fabbisogno energetico, costruendo nelle case, nei condomini e nelle aziende piccoli impianti fotovoltaici o eolici. Da questi, poi, va ricavato un surplus di energia, pari al 10 per cento, da immettere in una grande rete di distribuzione sarda, da cui far attingere chi non può essere autosufficiente».
Quanto costerebbe la costruzione di questa rete?
«Un terzo dei fondi Jessica, cioè le risorse che la Sardegna, ogni sette anni, prende dalla Banca europea degli investimenti».
In soldoni?
«Nella programmazione 2007-2013 i fondi Jessica ammontano a 33 milioni: le rete verrebbe realizzata con una spesa non superiore ai 14 milioni. Peraltro: quando dico che la classe politica sarda difende solo le proprie rendite di posizione, mi riferisco anche alle royalty (sono i compensi che vengono riconosciuti ai proprietari di un un bene naturale per il suo sfruttamento naturale). Nella nostra Isola, che sia la Regione o un Comune a cedere territori o beni, si ripete il solito schema: non sappiamo contrattare le royalty. Qui si svende tutto. Basti pensare in campo energetico il valore dei compensi che chiediamo è del 10 per cento, in Norvegia è del 60. E purtroppo succede lo stesso coi trasporti».
Vuole fare a pezzi la nuova continuità territoriale?
«Non la faccio a pezzi, ma benché io sia d’accordo con la tariffa unica, pure nel nuovo bando è emerso lo storico problema della nostra classe politica».
Quale?
«Non sappiamo imporre adeguati oneri di servizio, quindi le condizioni base per garantire la mobilità. Da noi succede che una qualche compagnia, aerea o navale, tagli sempre una o più tratte. La conseguenza è che non riusciamo a compensare la nostra condizione di insularità, non tuteliamo a sufficienza i servizi».
La storia sarda è zeppa di aziende che hanno preso una valanga di soldi pubblici e poi sono andate via lasciando disoccupazione e inquinamento.
«Per la precisione sono 440mila gli ettari non bonificati, pari un sesto della superficie isolana totale (24.090 chilometri quadrati). Anche su questo fronte è necessario intervenire, la Sardegna va ripulita, cominciando dal Sulcis. Non possiamo lasciare che una porzione così abbondante di Isola non abbia speranza né una nuova possibilità di sviluppo».
Il voto delle primarie si avvicina, poi andranno costruite le alleanze A chi allargare il centrosinistra?
«Credo sia fondamentale aprire la coalizione al Partito dei Sardi, fondato da Paolo Maninchedda e Franciscu Sedda: sono una risorsa in chiave sovranista».
L’ha già detto il suo leader Peppino Balia.
«Con cognizione di causa, perché il dialogo tra la Sardegna e Bruxelles va avviato. Maninchedda e Sedda, per formazione e impostazione ideologica, possono guidare questa spinta».
I sardisti del Psd’Az?
«Sono un altro patrimonio per il centrosinistra. Certo, devono dimostrare discontinuità rispetto all’allineamento col centrodestra di Cappellacci. Se decidono di spostarsi con noi, dovranno farlo lealmente, quindi per l’intera legislatura».

Alessandra Carta

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