L’INTERVISTA. Iosonouncane, la Sardegna e il poeta-minatore

Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, è un artista non convenzionale. Unico nel suo genere: la sua bravura rompe la monotonia della musica italiana, regalando sprazzi di cinica ironia a un mondo dove l’apparire conta ben più dell’essere. Oggi come oggi è sicuramente uno dei musicisti italiani emergenti più apprezzati. L’abbiamo incontrato sabato, dopo il concerto di Bauladu. Non va controcorrente Iosonouncane, è proprio schivo, ma coerente, musicalmente, si intende.

Dai temi della precarietà e della disparità affrontati in La Macarena su Roma, suo primo lavoro, è passato al racconto esistenziale. Dalla cronaca quotidiana impregnata di squallore italiano ha virato verso l’atavico senso di precarietà e angoscia respirato dai Sardi. Sardi proprio come lui, originario di Buggerru (ora residente a Bologna) e cresciuto a pane, musica e letteratura. Una storia nelle storie quella di DIE, il lavoro presentato nel 2015 che, dopo cinque anni di silenzio, l’ha riportato all’attenzione di chi ama la musica italiana più bella, quella del “Tenco” e dei paragoni scomodi con i grandi del passato.

DIE, come “giorno” in sardo e “morire” in inglese: un disco coerente, lineare, dove l’esistenza, spesso tragica, viene messa al centro di tutto, proprio come nei libri di Salvatore Satta e Giuseppe Dessì, dove talvolta è la natura, selvaggia e irruenta a dominare le vite dei Sardi. In DIE il linguaggio è essenziale e arcaico, privo di ogni intento estetizzante o aggettivazione superflua. Il lessico è ridotto all’osso. Nel calderone, oltre alle parole e ai testi, sempre più belli e ricercati, Iosonouncane inserisce le sue musiche, frutto, esattamente come per le parole, di un lavoro certosino, al limite del maniacale. Dai campionamenti e dall’elettronica (mai abbandonati) di La Macarena al folk intriso di cantautorato e prog­rock (ma anche psichedelia, canto a tenore sardo e minimalismo) di DIE.

Nel disco ci sono percussioni, beat elettronici, campionature vocali e orchestrali, un organo, un pianoforte, sintetizzatori, un flicorno, una sezione fiati composta da sax baritono trombone e tromba, chitarre classiche acustiche ed elettriche, una chitarra slide, la chitarra sarda preparata, grida e voci femminili. Tanto nella trama e nei testi DIE è svincolato dalla cronaca, non appartiene a nessun tempo o luogo definito, non ha limiti di genere. È un disco esistenzialista e anarchico, arcaico e moderno al tempo stesso. Un passo lungo per un concept album semplice quanto elaborato, risultato finale di un lavoro mirato, cercato e voluto. Sicuramente non sempre facile. Ma le cose belle quasi sempre arrivano sempre dopo tanta fatica. Una coerenza artistica che porta lontano, dopo anni di precarietà nei call center e di scelte mirate per riuscire a lavorare nella musica.

Campionamenti, loop: quanto è importante l’elettronica nella sua musica?

L’elettronica è per me solo uno strumento fra tanti. Ha caratterizzato il mio progetto fino a questo momento, soprattutto per quanto riguarda il primo disco, unicamente per ragioni contingenti ­ necessità di fare il possibile da solo, facilità di trasporto, ecc. Ovviamente ogni strumento porta con sé un apparato di codici e di estetiche che si fanno sentire. Ma fare musica elettronica non è mai stato fra i miei obiettivi ­ tant’è che non credo di averla mai fatta. Potrei benissimo non utilizzare più neanche un solo campione e fare un prossimo disco di sole voci e clavicembalo o voci e battito di mani.

C’è qualcosa di Battisti nei testi delle sue canzoni? Se sì, quanto hanno influenzato la sua arte quei testi e quelle musiche?

Sinceramente non amo i testi dei brani di Battisti. Musicalmente invece mi piace molto ed è sicuramente un’influenza molto forte.

Che strumentazione sta proponendo nei suoi live?

Il 3 marzo è partita l’ultima parte del tour di DIE. Si chiama MANDRIA e sul palco siamo in cinque. Ognuno di noi gestisce più strumenti: a me spettano chitarre, campionatori e voce principale.

Attualmente che cosa sta ascoltando?

Ho da poco terminato di leggere la biografia di Robert Wyatt, uno dei miei musicisti preferiti in assoluto. Per cui in questo periodo ne sto ripassando l’intera discografia.

In DIE il senso di tragedia imminente è palpabile: una sensazione tipica di noi Sardi, non tanto per la precarietà, quanto per la caducità della vita di fronte alla natura. Per mettere in musica queste sensazioni l’hanno aiutato di più i nostri spazi geografici o scrittori come Giuseppe Dessì e Salvatore Satta?

Il paesaggio sardo, formando il mio sguardo, ha modellato il mio rapporto istintivo con la vita. È il lessico inconscio che mi permette di decodificare la realtà, ciò che ho intorno, ciò che vive e muore. La lettura di determinati autori (e solo alcuni sono sardi) mi ha fornito negli anni gli strumenti per possedere in una qualche misura questo lessico e poterlo poi tradurre in immagini, in sequenze armoniche, in suono. Fra gli autori sardi il più importante per me è sicuramente Manlio Massole, minatore e poeta straordinario di Buggerru: le sue parole, la sua testimonianza, la sua integrità e il suo sguardo sono stati determinanti nel percorso che mi ha portato a DIE.

A questo proposito mi viene in mente De Andrè: il suo stare lontano dal clamore può servire da esempio per i giovani di oggi?

Rifiuto tanto il concetto di “giovani d’oggi” quanto l’immagine dell’artista-esempio.

Sino agli anni Settanta l’intelligenza e l’arte venivano messe al servizio della società per cambiarla. Adesso appare tutto molto più mercificato e la società sembra peggiorata. Che cosa ne pensa?

Da sempre, creando, l’uomo cerca di indagare e superare la propria condizione esistenziale, senza riuscirci. L’arte è di conseguenza tanto effimera quanto vitale, poiché ha come unica ragione quella che Maria Lai chiamava “ansia di infinito”. Ma un’opera non può esistere fuori dalla storia, ed è quindi certo che a posteriori assuma una funzione collettiva. Ma riguarda solo l’opera come manufatto oggettivo, esistente, dato, non l’artista. Un artista se posto al servizio del presente muore, poiché la sua meta non è il presente ma un tempo che non esiste.

Che cosa rappresentano i soldi per lei?

Semplicemente lo strumento che mi permette di avere ciò di cui necessito per vivere: del cibo, un tetto, dei vestiti, medicinali, strumenti musicali, libri, eccetera.

Nelle sue canzoni si respira un grande senso di libertà e sensibilità, oltre alla poesia. Pensa che a livello umano siano tre fattori destinati a scomparire? 

La poesia morirà con l’ultimo uomo poiché è propria dell’uomo. I concetti di libertà e sensibilità invece mi sfuggono.

La coerenza, il senso del rispetto, il pudore etico che prima erano più diffusi, potrebbero essere riscoperti e insegnati ai giovani per combattere le disparità sociali e l’arroganza?

Non ne ho sinceramente idea.

Federico Fonnesu

 

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