Timo l’invisibile: disagio e solitudine dietro la tragedia di viale Marconi

Una persona buona, colta e disponibile, ma irriconoscibile negli ultimi tempi: lo sguardo spento, l’attenzione assente. Gli amici di Massimiliano Enis, il 48enne trovato morto tre giorni fa a Cagliari nell’incendio scoppiato nella sua casa di viale Marconi, concordano nel ricostruire il triste quadro di solitudine e disagio in cui l’uomo si era rifugiato. L’analisi sul corpo condotta ieri dal medico legale Roberto Demontis ha escluso che la causa del decesso sia stata il fuoco e provato che nel momento in cui l’appartamento era invaso dalle fiamme l’uomo era già morto per cause naturali. Ad ogni modo sono ancora tanti i dubbi da chiarire su quanto accaduto la notte di giovedì nella casa dove Enis abitava da sette anni.

Massimiliano, che aveva compiuto 48 anni lo scorso maggio, era conosciuto come ‘Timo’ per via di un vecchio soprannome avuto in eredità dagli amici storici con cui frequentava piazza Repubblica, negli anni Ottanta e Novanta luogo di ritrovo della Cagliari underground tra rockabilly, metallari, punk e dark. Questi sono gli anni sereni per Enis, accompagnati dalle lunghe chiacchierate in piazza su film, musica e libri, la sua passione: “Era simpatico con tutti e garbato – dicono di lui – e aveva una grandissima cultura soprattutto in fatto di cinema”.

L’altro suo grande amore erano le storie a fumetti: nel bilocale di viale Marconi ce n’erano a migliaia. Tex Willer, Corto Maltese, Gordon Link soprattutto, collezionati dagli anni Sessanta, molti ancora sigillati e conservati in ordine, impilati insieme alle tante riviste musicali. I vigili del fuoco accorsi giovedì notte attorno alle 23 hanno avuto molte difficoltà a farsi strada nell’appartamento tra periodici e libri. Massimiliano Enis non aveva familiari stretti, a parte una cugina, aveva da anni problemi di alcolismo e non lavorava. Aveva una pensione di invalidità per una depressione cronica con cui conviveva da anni e dal Comune di Cagliari gli arrivava anche un piccolo contributo per l’affitto: sussidi che comunque non gli bastavano a sopravvivere, tanto che qualche mese fa, trovandosi indietro con il pagamento delle quote al padrone di casa, aveva ricevuto un avviso di sfratto: avrebbe dovuto lasciare l’appartamento entro il prossimo febbraio. Potrebbe essere questo uno dei motivi per cui ultimamente era sempre più depresso.

Chi lo conosce è convinto che il crollo psicologico di ‘Timo’ abbia avuto inizio 8 anni fa con la morte della madre: da quel momento in poi aveva iniziato a lasciarsi andare e a chiudersi più in se stesso. Negli ultimi mesi si vedeva sempre meno in giro e aveva smesso di frequentare i locali dove si incontravano gli amici. “A luglio scorso lo avevo convinto a farsi ricoverare per disintossicarsi ed era uscito dalla clinica pulito e con tanta volontà di riprendere in mano la sua vita – ci racconta Luca M., il suo migliore amico, che insieme a poche altre persone gli stava vicino quotidianamente – sembrava di nuovo il Timo che abbiamo sempre conosciuto. Dopo l’ospedale è passato al Centro Alcolemico di Cagliari, ma qui non si è sentito accolto: al primo incontro non è stato ricevuto da un medico e non gli hanno proposto un secondo appuntamento. Da lì ha ripreso a lasciarsi andare, e la minaccia di sfratto aveva acuito la sua depressione”.

Nonostante un malessere sempre più grave, Massimiliano aveva un animo buono e generoso. “Una delle preoccupazioni più grandi erano i suoi due gatti: spesso pensava prima a loro che a se stesso, e temeva lo sfratto  soprattutto per la sorte degli animali”. Ultimamente passava sempre più tempo in quell’appartamento di viale Marconi dove conservava la sua preziosa collezione di fumetti: pare non riuscisse a separarsene, neanche con la prospettiva di venderli per ricavare un po’ di soldi. “Erano tutta la sua vita – ci dice ancora Luca – e diceva spesso che li avrebbe voluti lasciare a me e ad Alessandra, un’altra amica che gli è stata sempre vicino. Ora che Timo non c’è più ci piacerebbe che venissero donati a qualche associazione che possa valorizzarli e metterli a disposizione di tutti, non vorremmo che la collezione a cui teneva così tanto venisse smembrata e venduta”.

Enis era in cura al Centro di Salute Mentale della Asl per la depressione e la sua situazione era conosciuta anche dai servizi sociali comunali: nonostante questo, viveva in una situazione di estremo disagio, quello che in sociologia è chiamata ‘barbonismo domestico’. Lo studio più recente sul tema riguarda il fenomeno nell’area di Roma ma l’identikit delle persone coinvolte pare comune a tutto il paese: individui che non vivono in strada ma hanno una dimora dove passano quasi tutto il tempo soli in condizioni di degrado. Secondo il sociologo Luca Di Censi che ha firmato la pubblicazione ‘Uno studio sul barbonismo domestico nell’area metropolitana di Roma. Tra poverta, sindrome di Diogene e disposofobia’, uscito lo scorso maggio con la casa editrice UniversItalia, si tratta di “un fenomeno che riguarda tutte le fasce di popolazione: l’isolamento relazionale è dovuto a traumi e può essere correlato a patologie psichiatriche pregresse o insorte a cui si associa tutta quella caratterizzazione tipica del barbone in casa: cattive condizioni igieniche o anche l’accumulo di oggetti”. Sono spesso persone colte e non indigenti, che sfuggono ai censimenti ufficiali su povertà e disagio, la cui situazione non arriva all’attenzione dei servizi socio-sanitari pubblici se non quando ormai è troppo tardi.

Invisibili alla società, proprio come Massimiliano Enis. “Il nostro amico aveva bisogno di affetto e aiuto – accusano gli amici – e invece è stato abbandonato da tutti, istituzioni comprese; a parte una famiglia che gli dava una mano e gli preparava da mangiare i vicini non lo salutavano neppure e non aveva rapporti con nessuno, a parte gli amici più stretti. Ora vogliamo capire cos’è successo in quell’appartamento, considerato che non fumava e non aveva sfufe che avrebbero potuto scatenare un incendio. Ultimamente aveva espresso la volontà di curarsi, di riprendere a vivere: non possiamo accettare che sia morto così”.

Francesca Mulas

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