Diciotto anni più tardi potrebbe emerge un’altra verità, anche giudiziaria, sul blitz (fallito) nel Lazio per tentare di liberare l’imprenditore Giuseppe Soffiantini, sequestrato dall’Anonima sarda nel Bresciano. L’operazione costò la vita a un poliziotto del Nucleo operativo centrale di sicurezza, Samuele Donatoni, ucciso da fuoco amico, per errore. Ossia dal collega Stefano Miscali, nato a Sassari. L’altro, il salernitano Claudio Sorrentino avrebbe poi appoggiato la ricostruzione falsa attribuendo lo sparo a uno dei sequestratori: Mario Moro, morto in carcere tre mesi dopo. Entrambi i poliziotti, protagonisti del “patto di ferro”, sono stati rinviati a giudizio ieri a Roma. Per la procura e i pm Elisabetta Ceniccola ed Erminio Amelio i due agenti hanno mentito: le accuse per loro vanno dalla calunnia alla falsa testimonianza. Mentre il reato di omicidio colposo, ormai, sarebbe prescritto. Una ricostruzione in parte sollevata dai resoconti giornalistici già nel 1997 ma di fatto, finora, insabbiata. Ora per i due si aprirà un nuovo processo.
La reazione di Miscali, con la pistola d’ordinanza, arrivò dopo gli spari del kalashnikov in mano a uno dei carcerieri, lo stesso Mario Moro. Quel giorno l’appuntamento era stato dato per incassare il riscatto da 20 miliardi di lire. Ma si presentarono le teste di cuoio. Da lì la sparatoria e la morte di Donatoni. L’imprenditore restò nelle mani dei sequestratori per 237 giorni, poi ci fu la liberazione.