La tradizione di Bosa e il vino naturale. Piero Carta: ‘Ecco la mia malvasia filet’

“La trasformerò in un campo da calcetto”, diceva Piero Carta al padre quando, ancora adolescente, veniva portato nella vigna di famiglia a Bosa a lavorare senza averne alcuna voglia. All’epoca odiava il lavoro nei campi, odiava stare sotto il sole tra le viti e avrebbe preferito passare il suo tempo libero insieme agli amici. Il padre non si scomponeva più di tanto: “In futuro potrai fare quello che vorrai, però ora mi dai una mano”. Carta oggi è agricoltore e produttore di vino naturale, e nella vigna ci passa la maggior parte del tempo per libera scelta. Nell’autunno del 2018 è nata ufficialmente la sua azienda, frutto di una storia familiare fortemente radicata sul territorio e sviluppatasi nell’arco di almeno tre generazioni. Una storia bosana che ha una sintesi nel nome scelto: malvasia Filet, ovvero due tradizioni del paese che convergono nelle sue bottiglie. “Ho un ricordo molto preciso di mia nonna che lavora al telaio per produrre i filet, ovvero i centrini tipici di Bosa”, racconta Carta. “Mio nonno pastore invece faceva la malvasia, così come mio padre. Col mio progetto ho voluto chiudere il cerchio”.

Carta, vignaiolo 43enne, è cresciuto tra i campi ma all’inizio senza particolare entusiasmo. “Mio padre è sempre stato molto legato a Bosa, anche quando si è dovuto allontanare per motivi di lavoro”, racconta Piero. “Quando ero piccolo aveva deciso di costruire una vigna in campagna, per rimanere ancorato al suo paese. E mi costringeva ad aiutarlo. Poi dieci anni fa gli è venuto un ictus e ci siamo dedicati esclusivamente a lui, al suo recupero, trascurando completamente le viti”. I campi sono rimasti abbandonati per un anno e, quando il padre ha iniziato a ristabilirsi, il figlio ha pensato di andare a controllare le condizioni della vigna. “La situazione era disastrosa”, racconta, “e in quel momento mi è scattata una molla che mi ha fatto dire: devo rimettere a posto quello che per mio padre è un tesoro. Ho detto a mia madre che sarei rimasto lì a prendermene cura, e alla fine sono rimasto per sei mesi”. L’insofferenza adolescenziale si era trasformata in amore e tutti gli anni passati a lavorare nella vigna controvoglia si erano rivelati, a posteriori, un apprendistato fondamentale. “Grazie agli insegnamenti di mio padre, quando ho iniziato a occuparmi della vigna sapevo già cosa fare praticamente in automatico”. È stato in quel momento che Carta ha realizzato di voler fare questo per lavoro e ha indirizzato tutte le sue energie nella produzione del vino.

Il suo progetto si basa su alcuni punti fermi fondamentali. Il primo è il legame fortissimo con il territorio, che non è solo un riconoscimento ideale ma sostanza del suo lavoro. L’idea è quella di partire dalla malvasia per arrivare alla “valorizzazione del territorio attraverso le sue specificità”. “Bosa ha una vocazione storica alla produzione di malvasia, tant’è che è l’unica area doc in Sardegna”, spiega. Per il paese non è solo una questione legata alla produzione del vino, ma è un dato culturale, identitario e sociale, connesso all’ospitalità e alla convivialità. “La malvasia era ciò che offrivi a un ospite quando veniva a trovarti. Giovanni Battista Columbu diceva che la malvasia ‘este unu inu de chistionare’, un vino ‘da parlare’. Per la questione sociale, certo, ma anche perché è un vino che si esprime mentre parli: qualche minuto dopo aver bevuto un sorso si sprigionano i sentori in gola e senti il suo vero sapore”. C’è anche un ricordo familiare legato al rapporto tra comunità e malvasia. “Mio nonno pastore era solito incontrarsi prima di pranzo con i suoi amici nelle varie cantine private, i camasinos. Facevano quello che per noi è l’aperitivo: bevevano un bicchiere di malvasia insieme e si raccontavano la giornata. Quell’appuntamento fisso era fondamentale”.

Strettamente connesso al legame col territorio e con la sua cultura ci sono le modalità di produzione del vino, che seguono alla lettera la tradizione bosana. “Vinifico con metodo ossidativo”, spiega. “Oggi la tendenza è di vinificare la malvasia in dolce per una questione di mercato, perché così è più facile venderla. Però penso che se cambiamo quel prodotto cambiamo anche un pezzo della nostra cultura, e quindi lo trasformiamo in un prodotto standard: un buon vino dolce ma slegato dalla tradizione”. Il vino in modo ossidativo si produce così: dopo la fermentazione alcolica, ovvero la trasformazione di zuccheri in alcol, e un breve periodo di stabilizzazione, si fa un passaggio del vino in botti scolme. Questo tipo di uva consente a una particolare categoria di lieviti, che si chiamano flor, di risalire e formare una patina in superficie, che consente un certo interscambio con l’aria. “Il vino non si ossida e acquisisce dei sentori particolari”, spiega Carta. “Quelli predominanti sono mandorla, nocciola, mallo di mandorla, una nota un po’ marsalata. La malvasia si vinifica così anche perché in questo modo si conserva a lungo. È un vino che devi aspettare, che è pronto dopo un anno, due anni. Con la mia cantina, insomma, cerco di fare un vino rigorosamente tradizionale. Del resto non ho voluto impiantare altri vigneti che non rispecchiassero il mio territorio. Cannonau o vermentino non mi appartengono. Il lavoro non è solo quello di fare un vino e di farlo il più buono possibile, ma soprattutto di fare un lavoro sul territorio”.

L’altra caratteristica della malvasia di Carta è l’utilizzo di lavorazioni esclusivamente naturali per la produzione del vino. “Quando mio padre ha iniziato si è affidato a degli anziani vignaioli che lavoravano senza usare la chimica. Usavano zolfo e rame, la zappa per togliere la terra e scoprire le radici, pulivano i fusti a mano. Quando sono andati in pensione, mio padre si è affidato a vignaioli più giovani che lo hanno convinto a usare sostanze chimiche che arricchiscono le piante, e macchinari che rendono superfluo il lavoro manuale. Io sono convinto che il lavoro fatto dagli anziani fosse migliore. La vigna era più sana. E ho deciso di seguire solo lavorazioni naturali. Per rispetto della terra, della natura: per una mia etica. Con l’idea di produrre meno ma in modo più sano e meno inquinante”. Da qui la collaborazione con la cantina Sa Defenza di Donori – che ha prestato gli spazi per vinificare – che si basa sull’idea di un tipo di agricoltura che prevede l’utilizzo del solo zolfo, senza chimica di sintesi, pesticidi, diserbanti. La prossima produzione invece sarà fatta in casa: “Proprio in questi giorni stiamo mettendo la cantina a norma”. La vigna di Piero Carta – un ettaro circa – a regime dovrebbe produrre duemila bottiglie. Le ultime due annate però non sono state fortunate. Nel 2017 la siccità, l’anno scorso al contrario troppa pioggia: alla fine sono uscite fuori poco meno di seicento bottiglie. Più che sufficienti però per avviare l’azienda, iniziare a stringere rapporti con locali selezionati in grado non solo di proporre la malvasia ma anche di valorizzarla e di raccontarne la storia, e partecipare – con grandi riscontri – a uno degli eventi del settore più importanti in Italia, ‘La terra trema’ di Milano. Il progetto ora è quello di acquistare nuovi vigneti a breve per ampliare la produzione. “Ma senza arrivare mai a grandi estensioni”, precisa. Fedele all’idea di produrre poco ma in modo sano.

Andrea Tramonte

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